Come ti riprogrammo il razzista del Triveneto

L’Ufficio esecuzioni penali esterne, che viene spontaneo pensare ingombro di scartoffie, con una rosseggiante stufetta d’emergenza sotto la scrivania, ha in realtà un compito delicato: favorire il reinserimento sociale di persone condannate in via definitiva, disponendo per loro un «trattamento socio-educativo».

Pur da non esperti di legge, si potrebbe suggerire che questo Ufficio rappresenta nelle sue funzioni una versione evoluta del principio per cui la pena va commisurata al delitto. Come si dice con rapida espressione inglese, “the punishment should fit the crime”: la punizione dovrebbe adattarsi al crimine, come un guanto o un abito tagliato su misura.

Per questa ragione, e per il principio di recupero sociale annunciato dianzi, l’Ufficio delle esenzioni penali di Venezia ha stabilito che quattro persone, tra i 34 e i 56 anni di età, condannate per alcuni feroci commenti sui richiedenti asilo pubblicati via Facebook, debbano stare sei mesi alla larga dal social network appena menzionato impegnandosi invece, come scrive il Corsera, «a leggere libri o guardare film sulle tematiche dell’immigrazione, meditando e poi scrivendo alcune brevi considerazioni sull’argomento».

Trattata come fosse poco più di una curiosità, la notizia è presto scomparsa tra gli incessanti e agitati flutti dell’informazione quotidiana, nelle sue declinazioni, ormai indistinguibili, di informazione attendibile e di informazione menzognera. A guardar bene, però, essa portava con sé questioni vecchie quanto l’uomo: quella della possibilità di redenzione umana, tanto per incominciare, e anche quella legata al libero arbitrio.

Riusciranno sei mesi di astinenza da social (ma come si riuscirà a imporli?) e qualche pensierino sull’immigrazione a rimettere in carreggiata i quattro personaggi veneti? Inoltre: è giusto provarsi a modificare la loro opinione circa il fenomeno che tanto fa discutere? Un conto, infatti, è obbligarli a esprimere il loro pensieri in termini accettabili (limite che i quattro hanno ampiamente superato nel momento in cui progettavano, a parole, di bruciare vivi i profughi), un altro è cercare di condurli a un atteggiamento mentale, ma anche ideologico, diverso.

Nel romanzo di Anthony Burgess “Arancia meccanica” (1962) e nel successivo film di Stanley Kubrick, si immaginava un futuro non troppo lontano nel quale, a fronte della dilagante violenza delle bande giovanili, il governo finanziava un progetto per la “riprogrammazione” cerebrale dei piccoli delinquenti: un condizionamento psicologico che li costringeva a rifiutare il “male” in favore del “bene”.

Non mi pare ci sia alcun pericolo che il governo in carica ci costringa ad accettare l’immigrazione tramite condizionamento psicologico, ma la questione rimane aperta: si può ”condannare” qualcuno a non essere razzista, nazista o comunque genericamente incline all’odio e all’intolleranza? E se sì, tale punizione sarà mai utile allo scopo?

Io dubito che sei mesi di astinenza da Facebook e un compitino sull’immigrazione trasformino un crapone razzista di 56 anni nel più accogliente degli individui. Per qualche ragione, me lo immagino insensibile al «trattamento socio-educativo». Magari si otterrebbe qualcosa dicendogli invece che non deve per forza rinunciare alla sua opinione ma che, per il bene di tutti, compreso il suo, non va mai usata come una clava.

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