Siamo felici? Permettetemi di rispondere a nome di quella che temo essere una vasta maggioranza: no. Ammettiamo pure per ipotesi di essere liberi, al momento, da gravi preoccupazioni personali: tanto non basta a renderci felici. Stiamo uscendo, a piccoli passi in diagonale, dalla lunga crisi del Covid solo per scoprire una guerra consegnataci sul pianerottolo.
In poco più di una settimana, i media ci hanno caricato sulle spalle una tonnellata d’ansia, una montagna cresciuta nelle ore in ragione esponenziale. Basti pensare ai titoli che abbiamo visto scorrere sotto i nostri occhi: invasione, guerra, minaccia nucleare, nuova Chernobyl («sei volte più grave dell’originale»). È vero che, come diceva Mark Twain, passiamo la vita a preoccuparci di cose che per la maggior parte non accadono, ma anche al netto di questo, come non sentirci in sofferenza per la gente dell’Ucraina, a noi prossima nel senso lato e letterale della parola?
Dunque, siamo infelici. Chi più, chi meno: a seconda dello spessore della scorza che ci ricopre. Siamo infelici, forse, anche perché abbiamo della felicità un’idea sbagliata, irreale. Per esempio, oggi la felicità potrebbe coincidere con un’evoluzione storica che porti gli abitanti del pianeta, presi singolarmente e raggruppati in nazioni, a uno stato di pace stabile se non permanente. O che almeno la pace si distenda per lunga distanza tutto attorno a noi così che se guai esistono, siano almeno fuori dalla portata del nostro sguardo (un’idea cinica, ma che coincide con la mentalità applicata dall’uomo nella stragrande maggioranza dei casi).
Ebbene, scordiamocela, questa felicità. Non solo è improbabile che la Terra si elevi a uno stato di pacificazione simile a una sorta di stupore, va anche tenuto in conto che un simile concetto di felicità non esiste. Esso equivale al “vissero per sempre felici e contenti” con cui si usava chiudere le favole, confidando nell’intervento di uno stabile senso emotivo di serenità e appagamento.
Chi ha studiato per mestiere la felicità, un lavoro non male, mi sia consentito dire, sostiene che “felici e contenti” è un mito, una chimera. In effetti, non è difficile arrivare a comprendere il concetto: è rinunciarci la parte impegnativa.
Il dottor Tal Ben-Shahar, l’esperto di felicità di cui sopra, afferma che questo tipo di felicità idealizzata è l’ostacolo più serio che ci separa da una felicità magari più modesta ma possibile. Che si raggiunge - è questa la sua opinione - evitando la prima come la peste, o - in accordo con la metafora da lui proposta - evitando di lasciarsi abbagliare da questo sole immaginario che sempre cerchiamo di guardare direttamente e che sempre ci abbaglia e ci tradisce.
La ricerca della felicità è dunque indiretta, a piccoli passi, per conquiste parziali da ripetere continuamente. Sta nell’aiutare il prossimo, tollerarne le peculiarità che, sulle prime, ci disturbano e proseguire senza chiedere niente in cambio.
Così facendo un giorno potremo sorprenderci felici. E in pace, invece che in guerra, con il mondo.
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