Un paio di anni fa, su un volo Alitalia, gustai un espresso di straordinaria fragranza servito dallo steward più gentile che mi sia mai capitato di incontrare. Tanto basta per esonerare la mia voce dal coro che, in questi giorni, intona canti di vergogna sul muso dei dipendenti della compagnia aerea, colpevoli di aver detto “no” alla proposta di accordo sottoscritta dal sindacato.
Questo per dire che, talvolta, nel censurare - anche giustamente - certi comportamenti individuali o di massa, si contribuisce a creare nella testa della gente l’immagine di un presunto “nemico dell’umanità” del tutto ottuso e del tutto avido, quando in realtà ci assomiglia più di quanto ci piaccia ammettere.
Ciò detto, il pur memorabile caffè dell’Alitalia non basta a spingermi a sostenere la nazionalizzazione della compagnia la quale, purtroppo, ha già abbondantemente macinato la sua quota di denaro pubblico. Peccato, anzi peccatissimo, perché in altre condizioni e, forse, ad altre latitudini, sarebbe tutto sommato accettabile che lo Stato - ovvero la comunità dei cittadini - mantenga una compagnia aerea di bandiera. E con “mantenga” intendo proprio “mantenga”: spendendo cioè soldi a fondo perduto. In fondo, si potrebbe pensare che il mancato ritorno economico verrebbe compensato da quello di immagine: una compagnia dal volto dinamico e simpatico, che serve ottimo caffè e ignori il recente trend di malmenare i passeggeri, potrebbe far molto per la reputazione di un Paese.
Purtroppo, e per assurdo, la storia dell’Alitalia dice che è possibile anche trasformare l’occasione in una maledizione: invece di far volare un messaggio positivo, la compagnia nazionale ha imbarcato il peggio, ovvero clientele, privilegi, sprechi e, adesso, vittimismo. Tutta roba di cui non ci libereremo facilmente, ma che almeno vada a piedi.
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