L’annuncio, da parte della Nasa, della teorica “abitabilità” di sette pianeti nell’orbita di una singola stella a circa 40 anni-luce da noi, ha suscitato comprensibili entusiasmi e mescolato, in tutti, sentimenti profondi. A ciascuno sarà capitato, magari in una notte stellata o a Ferragosto, disponendosi alla ricerca di un idraulico, di misurare con l’anima lo smarrimento della solitudine spaziale. Soli, infinitamente soli in un universo così grande e bizzarro che la nostra mente, pur capace di ragionamento, calcolo e fantasia, non riesce a farsene un’idea precisa.
L’annuncio della Nasa ha ridotto un poco questo smarrimento esistenziale, anche se qualche motivo per raffreddare gli entusiasmi non manca. Esalta l’idea che ci possano essere altre forme di vita nell’universo, ma prima la distanza e poi il tempo scavano tra noi e questa possibilità un solco invalicabile. Quaranta anni-luce sono una distanza impensabile; inoltre la Terra, per diventare quella che è, abitata come è, ci ha messo circa 4,5 miliardi di anni: ognuno di questi sette pianeti potrebbe essere in un punto qualunque della sua avventura evolutiva e presentare un equilibrio chimico diverso da quello che ha permesso di arrivare alla vita come la conosciamo oggi.
Detto questo, fantasticare è lecito, soprattutto perché tra l’illusione della solitudine infinita e quella della prossimità con gli extraterrestri non c’è che da cambiare sogno. Sette pianeti abitabili in un colpo trasformano l’idea desolata che avevamo dell’universo (un deserto con in mezzo noi, viaggiatori smarriti), in una sorta di gigantesco condominio. Presto, se la Nasa non smette di cercare, dovrà esserci un’assemblea, qualcuno calcolerà i millesimi e si finirà per eleggere un amministratore. E poi guai a chi farà sgocciolare l’acqua dei gerani su Plutone, terrà la musica alta su Alpha Centauri e, soprattutto,non ricorderà che la spazzatura si mette fuori il mercoledì, ma ogni 7.000 anni.
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