Contrordine: la meritocrazia non va più bene

La meritocrazia non sempre è applicata con rigore (l’esistenza stessa di questa rubrica lo comprova) ma è invariabilmente evocata con accenti saldi. Moltissimi affermano addirittura di “credere” nella meritocrazia, come se fosse necessario un atto di fede, e dunque di raddoppiata convinzione. Altri, non meno numerosi, vedono nell’assenza di meritocrazia la radice di tutti i problemi: «Ci fossero le persone giuste al posto giusto, tutto andrebbe meglio». Non di rado, per curiosa coincidenza, coloro che sostengono questa tesi vedono proprio in se stessi le persone “giuste” per i posti “giusti” cui fanno riferimento.

In ogni caso, pochissimi mettono in discussione il principio: la meritocrazia è cosa sacrosanta. Questo, almeno, fino a ieri, perché - udite udite - oggi serissimi studi la mettono in discussione: essa, sostengono, incoraggia egoismo, discriminazione e indifferenza verso i più deboli.

Come è possibile? Vediamo intanto che cosa è, in effetti, la meritocrazia. Secondo la Treccani, trattasi di «concezione della società in base alla quale le responsabilità direttive, e specialmente le cariche pubbliche, dovrebbero essere affidate ai più meritevoli, ossia a coloro che mostrano di possedere in maggior misura intelligenza e capacità naturali, oltreché di impegnarsi nello studio e nel lavoro». Il termine, aggiunge la Treccani, è usato con connotazione sia negativa sia positiva: essa, infatti, da una parte tende a «discriminare chi non proviene da un ambiente familiare adeguato», mentre dall’altra costituisce« una valida alternativa sia alle possibili degenerazioni dell’egualitarismo sia alla diffusione di sistemi clientelari». Due recenti studi fanno però pendere la bilancia dalla parte negativa: uno - un test psicologico sulla percezione delle valutazioni di merito - condotto a Pechino e un secondo - basato su alcune esperienze applicative in compagnie private - portato a termine dal Massachusetts Institute of Technology e dall’Università dell’Indiana. Risultato pressoché univoco: non solo la meritocrazia non serve ma è perfino nociva.

I ricercatori americani dicono, per esempio, che nelle compagnie votate alla meritocrazia come “valore fondante” della loro organizzazione le discriminazioni di genere tendono a essere più spiccate rispetto alle altre. Inoltre, fanno notare come gli esempi a più alto livello non dimostrano affatto che la meritocrazia funziona: ci sono, nel mondo, esperti di informatica bravi quanto se non più di Bill Gates, e altrettanto disposti al lavoro duro e al sacrificio, ma nessuno ha avuto successo quanto lui. Non solo il merito crea i Bill Gates, anche fortuna e opportunità: negare l’apporto di questi elementi significa tracciare un ritratto sbagliato (e fuorviante) del successo personale.

Ma allora, come si fa? Torniamo (se mai ce ne siamo andati) alla raccomandazione, al sei politico e all’anzianità che fa grado? I ricercatori non propongono esplicitamente sistemi alternativi ma, tra le righe, si intuisce come la pensano: la collaborazione, qualora promossa, ottiene risultati migliori e più solidi rispetto a quella sorta di “darwinismo da ufficio” che pare essere la meritocrazia. Se così fosse, ci avrebbero consegnato un’indicazione molto importante per il futuro. Non che per questo possano aspettarsi meritocratici riconoscimenti.

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