Cosa dici?

Cosa dici?

Non pretendo, neanche lontanamente, di essere un perfetto custode della lingua italiana. Ci metto dell’impegno, questo si: distribuisco virgole, bado agli apostrofi e, in presenza di un congiuntivo, faccio attenzione a non dargli dell’imperfetto.

Ieri ho letto sul Corriere della Sera che non per tutti è così. Test svolti all’Università «La Sapienza» di Roma hanno impietosamente svelato il declino dell’italiano presso gli studenti: «Vocaboli sbagliati, congiuntivi e apostrofi spariti». Il segno, commentava il giornale, di un progressivo impoverimento della lingua.
Giusto, direi: l’impoverimento senza dubbio c’è. Ma c’è anche di peggio. Il degrado dell’italiano non riguarda solo la forma, è più profondo. Si tratta, se mi è permesso osare, di una devastante corrosione a livello semantico: per dire quello che vogliamo dire non diciamo ciò che dovremmo dire ma diciamo dell’altro. Facciamo uso di luoghi comuni spesso poco appropriati nonché di allocuzioni calcaree: quelle che, pur aderendo come un’incrostazione al significato, non lo raggiungono affatto. Ci comprendiamo, questo sì, ma a spanne, per approssimazione.
La prova? L’altro giorno Mauro Marin, vincitore della più recente edizione del «Grande Fratello», ha apostrofato un gruppo di animalisti in protesta davanti a un circo: «Andate a lavorare» ha detto loro. Ora: se un concorrente del «Grande Fratello» invita qualcuno a trovarsi un lavoro, sfidando logica, senso del ridicolo e limiti del paradosso, è perché non sa ciò che dice: si accontenta di dirlo.

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