Crisi

Crisi

Spinti a fondo dalla generale impopolarità, zavorrati da personaggi per candidare i quali pare si sia preso a modello Pietro Gambadilegno, svergognati dall'incapacità mostrata sul terreno nazionale come su quello internazionale, i principali partiti di centrodestra e di centrosinistra sono impegnati, in questi giorni, a discutere su come riformarsi.

Trascurerei la questione se Renzi sia meglio di Bersani o se Berlusconi abbia ragione nel cacciare tutti o se, già che c'è, dovrebbe completare l'opera cacciando anche se stesso: nonostante i giornali ci facciano sopra titoloni e articoloni, mi sembra si tratti di dettagli. La questione fondamentale è un'altra: avete l'impressione che dal tormentato dibattito emergeranno due partiti nuovi, talmente cambiati da non essere neppure più riconoscibili come partiti nel senso deteriore del termine, ovvero macchine di potere, di appropriazione, di controllo e di manipolazione? Se sì, allora siamo ben avviati e possiamo abbracciare in toto la discussione, affrontare il programma di Renzi e leggere interviste a Cicchitto senza temere crisi di rigetto. Se no, mi chiedo perché si metta ancora in piedi questo show se non per abitudine, ristretto interesse e incapacità di immaginare alternative.

Ho parlato di partiti ma un po' tutto il Paese, a cominciare dai media, pare riluttante ad accettare l'idea che tutto sta cambiando e che la parola stessa "crisi" contenga nel suo nucleo il concetto stesso di passaggio, anche traumatico, da uno status quo a un altro. Secondo un modello imposto per primo dai partiti, cerchiamo invece di puntellare il passato, di resistere all'onda di piena per poter dire un giorno, tutti dietro alle nostre maschere, che ce l'abbiamo fatta, la crisi è passata e miserabili eravamo e miserabili siamo rimasti.

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