Se poteste seguirmi per qualche minuto, lasciando qui all'ingresso le aspettative ma portando con voi una scorta di pazienza, vorrei intrattenervi oggi su un'espressione che sempre più spesso si sente utilizzare: “Non andiamo da nessuna parte”.
Essa conosce anche le varianti “Non si va da nessuna parte” e soprattutto “Così non si va da nessuna parte”. Il fatto che l'uso di questa espressione stia esponenzialmente aumentando, non è un buon segno. Infatti, la si pronuncia come manifestazione di scoramento. Inutile insistere, afferma l'utilizzatore nel sottotesto, date le premesse e con queste patetiche inettitudini siamo destinati a non progredire. L'idea sottintesa è forse quella del progresso ma, a ben vedere, l'espressione non ne fa cenno. O meglio, lo considera equivalente al movimento. “Andare da qualche parte” piuttosto che rimanere qui, sarebbe comunque un miglioramento.
Facciamo finta che sia vero (anche se a rigor di logica non lo è): chi sarebbe responsabile di questo infernale stallo? A sentire l'utilizzatore dell'espressione di cui sopra, tutti tranne egli stesso. “Branco di imbecilli” sostiene colui che ormai potremmo chiamare il “danessunapartista”, “non vedete che comportandovi così costringete tutti, e soprattutto me, a restare qui anche se non ne ho voglia e non mi piace?”
D'accordo, ma che cosa fa il “danessunapartista” per sbloccare la situazione e imprimere finalmente una newtoniana accelerazione all'universo immobile che tanto lo soffoca? Niente, si direbbe, se non lamentarsi. Gli altri, coloro che redarguisce, sembrerebbero invece impegnati in una qualche attività. Inutile, e forse addirittura nociva, a giudizio del “danessunapartista”, ma pur sempre un'attività. Chi, secondo voi, tra loro e il “danessunapartista” recriminante (e inerte) ha maggiori probabilità di riuscire, anche solo per fortuito incidente, a sbloccare la situazione? Io non ho dubbi, e quando vedo (o sento) un “danessunapartista” lo invito a togliersi di mezzo e a lasciarmi andare, con tutto agio, da nessuna parte.
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