Mi è capitato di spaventarmi per qualcosa visto in tv o al cinema. A volte mi ha fatto paura un libro (o anche un libro nel libro: come quello, pieno di ombre e aggeggi criminali, che un tremebondo Oliver Twist sfoglia nel romanzo di Dickens); non ultimi, i giornali mi hanno a volte provocato brividi e inquietudini. Mai però, mi aveva fatto paura un sito web. Forse perché tutto ciò che viene dalla Rete passa attraverso un apparecchio che, a differenza della tv, mi appare come un elettrodomestico: ciò che vedo arrivare sullo schermo del pc, o del telefonino, è un prodotto affine, così mi sembra, all’operato di una lavatrice o di un aspirapolvere, non di un mezzo di comunicazione vero e proprio.
A rompere il tabù ci ha pensato il sito del “Guardian” pubblicando un dossier sull’isolamento carcerario, quel regime al quale vengono affidati i detenuti più pericolosi o che per qualche ragione si vuole punire. Il dossier comprende una visita “virtuale” a una cella d’isolamento e raccoglie le testimonianze di chi, per anni, ha ascoltato soltanto la sua voce: quella vera e quella frutto di crescenti, tremende allucinazioni.
C’è davvero di che rabbrividire, tanto che ho subito pensato a quella orribile cella, sia pur virtuale, quando ho letto di una nuova teoria medica sulla solitudine. Isolamento e solitudine non sono ovviamente la stessa cosa: la prima è uno stato di costrizione, ovvero l’impossibilità fisica di unirsi alla società, la seconda è un’alienazione psicologica dal prossimo. Entrambe le condizioni, però, portano a uno stato di prostrazione - estremo nel caso dell’isolamento, più strisciante in quello della solitudine - che ora gli scienziati legano all’evoluzione.
La sofferenza che proviamo nella solitudine sarebbe il modo in cui il nostro corpo ci ricorda che, per il nostro stesso bene, dobbiamo partecipare alla società. Riuscire poi anche ad amarla, la società, ovvero il prossimo nostro, non è faccenda che riguardi Darwin: occorre l’aiuto di qualcuno più in alto.
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