D’accordo: paragonare la Costa Concordia all’Italia non è più consentito. Si viene tacciati di scarsa fantasia, di inetta creatività e di misero qualunquismo: come se tutte queste cose, da sole, non fossero a loro volta rappresentative dello spessore intellettuale della nazione. Però, ripeto, sono d’accordo: paragonare un relitto all’affannosa deriva imboccata dalla Repubblica è in effetti un colpo basso, un automatismo del pensiero, una resa al grigio e improduttivo pessimismo sociale.
Il relitto e il naufragio li lasceremo dunque stare. Ma il relativo processo? La sfilata dei testimoni nell’aula del teatro Moderno (!) di Grosseto possiamo farla passare inosservata? Vogliamo far finta che sia tutto normale, ordinario? Oppure vogliamo dire che sì, c’è qualcosa di straordinario in un processo celebrato nel 2013 per il naufragio di un piroscafo, ma nulla che sia riferibile al Paese che lo ospita, alle coste presso le quali il disastro è avvenuto e ai personaggi che il disastro medesimo lo hanno provocato e subìto?
Il capitano carico di galloni che scarica la responsabilità su un timoniere straniero, secondo questa tesi, sarebbe dunque un caso unico, mai visto prima nel Paese. Anche la straniera clandestina, amante a scrocco, sarebbe un esemplare inedito, una novità assoluta nel panorama antropologico della penisola. E i testimoni spauriti, vittime di incompetenza, leggerezza, faciloneria e, a disastro fatto, in balìa dell’ostinato rifiuto di prendersi responsabilità, delle tattiche dilatorie, dei tentativi di compravendita, nonché sottoposti all’offerta di prodotti tipici quali i tarallucci e il vino? Anche questi sconosciuti?
Tutte facce nuove, atteggiamenti inauditi, stupefacenti eccezioni, corpi estranei, “una tantum” morali in un Paese, al contrario, pieno di capitani coraggiosi, cittadini consapevoli e tutelati, contribuenti impeccabili.
Nonostante tutto, sono d’accordo: la metafora del relitto è un luogo comune. Ma il diritto di respingerlo dobbiamo ancora conquistarlo.
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