Doping in prosa

Doping in prosa

Lo dico contro il mio interesse ma auspico che, per legge, a ogni giornalista venga attaccato un cavo elettrico. Al terzo aggettivo fuori posto, esagerato, mellifluo, pretenzioso, ecco esattamente adesso, una scossa elettrica lo avverte: piantala o ti friggo le meningi. Stesso trattamento ogni volta che la penna si lascia scappare un commento pieno di sussiego: una passatina a 220 Volt e il prossimo articolo sarà senz’altro di sobrietà anglosassone.

Sul caso Alex Schwazer, il marciatore trovato positivo al doping, per sistemare gli sbrodolamenti della stampa italiana sarebbe stato necessario spremere a fondo un’intera centrale termoelettrica. Non perché i giornalisti abbiano trattato male lo Schwazer medesimo – se lo merita e lui stesso si è dato del "cretino" -, piuttosto perché lo hanno preso a prestito per costruire quadretti di pietoso (ir)realismo: eccolo trasformato in un «eroe fragile», incapace di «accettare il tempo che passa», «prigioniero delle sue debolezze», «lasciato solo e marcio sulla strada sbagliata».

È vero che Alex Schwazer ha sbagliato, è verissimo che ha preso una scorciatoia illegale e che per questo va punito e deplorato. Ma certo non merita di diventare bersaglio della mediocre letteratura di gente che, se pure non pecca con il doping, di scorciatoie ne infila ogni volta che può. Se si vuol parlare di debolezze, basta sentirli frignare, i soloni, quando all’insorgere di un lieve malditesta non vengono immediatamente serviti di aspirina. Senza considerare i gemiti per una camera d’albergo non all’altezza, per la coda allo sportello degli accrediti troppo lunga e via così, piagnucolando e recriminando. Si dirà: le debolezze di un atleta sono particolarmente censurabili perché è a lui che guardiamo per la salvaguardia dei nostri valori più puri. Già: proprio quei valori che, una volta salvi, gli opinionisti amano insudiciare con la loro prosa da strapazzo.

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