Dopo il lavoro

Il fotogramma del vigile che, a Sanremo, timbra il cartellino in mutande e la spiegazione da lui stesso fornita per tale bizzarro comportamento - «Abito a due passi..» - hanno fatto ieri il giro di Internet. Dunque, sarà il caso che mi astenga da ogni commento, anche se vorrei far notare come la prossimità al luogo di lavoro non giustifichi una certa approssimazione nell’abbigliamento, altrimenti vedremmo la regina d’Inghilterra girare in pantofole per Buckingham Palace.

Ciò detto, il tema del vigile viene buono per introdurre un argomento collaterale: quello del lavoro e delle opportunità che si aprirebbero se potessimo farne a meno.

“Hopes&Fears”, una pubblicazione culturale online, ha voluto chiedere a un gruppo di esperti - economisti, intellettuali, eccetera - come immaginano il futuro dell’umanità quando, grazie all’automazione e all’intelligenza artificiale, il lavoro diventerà un ricordo e l’umanità potrà vivere, per così dire, in uno stato di ferie permanente.

Le risposte degli “esperti” sono tutte interessanti ed esplorano sentieri molto diversi tra loro. C’è chi immagina un’umanità trasferita allo stato di esistenza tipico dei pensionati, ovvero impegnata quasi esclusivamente in attività moderatamente ricreative e comunque di consumo. Altri invece prevedono una fioritura delle arti e, più in generale, della creatività: libero dalla necessità di ripetere e ripetere ancora gesti di produzione, l’uomo potrà esprimere a fondo la sua sensibilità.

Tutto interessante, come accennavo. Devo però confessare che la risposta più bella l’ha data, secondo me, David Bensman della Rutgers University: «Quando il lavoro sarà finito, continuerò a lavorare». Secondo Bensman ciò che andrà a finire sarà la necessità del lavoro retribuito: questo non significa che il lavoro in sé e per sé sarà perduto. «Prendersi cura della famiglia, pulire, cucinare, curare i nipotini: ci sarà tanto da fare». Bensman ha ragione: il lavoro non è soltanto stipendio. Piaccia o no, è una condizione umana essenziale.

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