Dumas

Dumas

Hai voglia a difenderlo dal doping, hai voglia a proteggerlo dalle scommesse: le fragili pareti che separano lo sport dal resto della società cedono sotto la spinta degli interessi, del denaro, delle ambizioni. Per questo, nel parlare di calcio marcio o corrotto dimentichiamo il paradosso: vorremmo, pretenderemmo anzi, che lo sport fosse immacolato quando tutto il resto non lo è. Sarebbe come apostrofare un tizio e dirgli: «Lei, signore, non è un santo». Probabilmente coglieremmo nel segno, ma non per questo saremmo autorizzati a crederci migliori di lui.

Il fatto è che lo sport si basa su una concezione ottimistica del genere umano. Quella che, vincolato a un patto da una semplice stretta di mano e da una promessa sull’onore, un gruppo di individui possa dedicarsi a un’attività agonistica rispettando le regole del gioco nonché i verdetti di chi è deputato a risolvere eventuali controversie e, infine, accogliendo il risultato per quello che è, senza sciogliersi in recriminazioni e, soprattutto, senza manipolarlo per ottenere un vantaggio economico.

Sarebbe dunque lo sport una sorta di paradiso terrestre dove chiunque, immediatamente promosso a gentiluomo e accreditato senza ipoteche di illimitata rispettabilità, agisce sempre in perfetta buona fede, motivato sì dalla competizione ma soprattutto dall’altruismo e dalla correttezza, senza altra lettera di referenze se non la sua stessa parola d’onore.

Se fosse così, e forse per un certo tempo lo è stato, assomiglierebbe poco al mondo di oggi, questo sport, e molto a quello di Dumas padre e dei suoi moschettieri tutti gagliardia, virtù, fedeltà, rispetto e ardimento. I tre moschettieri che poi , ricordate, erano quattro: mentre gli altri combattevano il male, uno se ne stava sempre al riparo in sala scommesse.

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