È arrivato Superman

Una delle occasioni che si hanno, non direi a portata di mano ma comunque possibili, per studiare se stessi e gli altri è assistere in compagnia a una finale dei 100 metri di atletica.

Non una finale qualunque, va precisato: piuttosto, la finale dei mondiali o, ancora meglio, delle Olimpiadi. Si può anche assistere a una replica o a una registrazione, ma l’ideale, lo si intuirà, è non mancare la trasmissione in diretta. Un’altra irrinunciabile condizione sarà che alla finale partecipi il giamaicano Usain Bolt: viste le sue prestazioni degli ultimi anni, non dovrebbe essere un problema.

È accaduto domenica sera a Mosca ed è accaduto, moltiplicato per dieci o forse cento, l’anno scorso a Londra: ognuno si appresta ad assistere al fulmineo evento (meno di dieci secondi, lo sappiamo) certo dell’esito finale - la vittoria dello straordinario Bolt - eppure esaltato dall’imminenza di un miracolo, quello della disarmante superiorità di un atleta sugli altri atleti, ma anche di un uomo sui suoi simili.

La pistola dello starter rilascia sia i muscoli degli atleti sia i commenti di noi spettatori: «Eccolo che vola!», «È già davanti», «Non si sforza neppure!», «Praticamente sta camminando», «Neanche una goccia di sudore!»

In dieci secondi - anche meno, abbiamo detto - viene declinata in tutti i modi possibili l’ammirazione più fanciullesca, estasiata, ingenua e pura che un essere umano può provare nei confronti di un altro. Non è un ammirazione mediata da una qualità. Nel maratoneta apprezziamo la resistenza, nel lottatore il coraggio e la forza, nel nuotatore la potente eleganza. Bolt non ha bisogno di nulla di tutto ciò: suscita la nostra ammirazione dimostrandosi semplicemente “oltre” tutti gli altri, in virtù di un talento in apparenza privo di disciplina.

Poco importa che, nella realtà, quel talento sia affinato da pazienza e allenamenti; la sua corsa è una tale meraviglia naturale da farci balzare in piedi come bambini: «È arrivato Superman!»

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