E lì è rimasto

Mi chiedo (e vi chiedo): come mai l’umanità ha così poca fiducia nel futuro? Lo so, la risposta vi vien facile: basta leggere o guardare le notizie per farsi passare l’entusiasmo. Ricevo l’obiezione, ma ribatto: quello di cui parlate è il presente, non il futuro, e sebbene da un così pessimo presente sia difficile trarre buoni auspici per il tempo che verrà, la transizione, in punta di logica, è errata.

Parlando di futuro, dovremmo intendere - è la mia proposta, almeno - un tempo anteriore che rappresenti uno stacco, ovvero un progresso, rispetto al presente. In questo senso, definirei il futuro qualunque tempo prossimo che sia distante abbastanza perché la gente possa percepire un cambiamento, una netta diversione dal passato.

Eppure, anche ammesso che questa mia confusa definizione possa venire accettata, la diffidenza dell’umanità nel futuro resterebbe intatta. Guardiamo alla cultura popolare: almeno dai tempi della Guerra Fredda (e della paura atomica) la fantascienza dipinge il futuro come fosco e pericoloso. Dopoguerra nucleari, crisi energetiche, catastrofi naturali, invasioni aliene: il futuro è per eccellenza il luogo del terrore. Paure “esterne”, certo, ma nient’altro che proiezioni ingigantite di quelle “interne”. In tutti questi affreschi - dalla “Guerra dei mondi” ad “Alien” - si dà per scontato l’incedere inesorabile del progresso tecnologico, ma questo non coincide mai con un accresciuto benessere generale, ovvero una più salda fiducia in noi stessi e nelle nostre capacità di affrontare l’ignoto.

Non c’è autore di fantascienza che non preveda anarchia galoppante, violenza gratuita, dipendenza dalle macchine, totalitarismo tecnologico, paranoia e schizofrenia. Sfogliamo pure Bradbury, Dick e Orwell: troveremo ben pochi paragrafi di speranza. L’ignoto autore della frase «E vissero felici e contenti» non è stato mai ammesso al genere fantascienza. L’hanno assegnato al mondo delle fiabe e lì è rimasto.

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