Ecco

Di tutte le espressioni usate dai giornali, una delle più interessanti è senz'altro “ecco”. Soltanto ieri, la prima pagina del sito “l'Espresso” ne riportava due: “Ecco chi specula sui profughi” e “Corruzione, ecco il decalogo”.

Andiamo alla fonte e, prima di vedere come “ecco” viene usato, cerchiamo di stabilire che cosa è. Secondo il fedele Devoto-Oli, trattasi di avverbio: “Richiama l'attenzione su una cosa o un fatto già percepibile, o sottolinea un fatto o un'apparizione improvvisa”.

Direi che ci siamo. Proprio come dice la definizione, l'uso che fa “l'Espresso” di “ecco” attira la nostra attenzione su un fatto già percepibile (lo sfruttamento dei profughi, la corruzione) per poi promettere qualcosa in più (ecco chi sfrutta i profughi, ecco il decalogo della corruzione).
Ma per capire che cosa davvero indica l'“ecco” usato nella comunicazione dobbiamo inoltrarci nel terreno delle deduzioni più personali. Per quanto mi riguarda, ho sempre letto nell'“ecco” sbandierato dai giornali una specie di baldanza, di sfida, perfino un accenno di superbia. “Ecco” - è il messaggio sottinteso - “noi abbiamo fatto tutto il lavoro, a voi non resta che leggere”. Di più: con l'uso squillante dell'“ecco” si fa intendere che ottenere le informazioni presentate al lettore non è stata una passeggiata, anzi. “Abbiamo scalato per voi il Monte Remoto per coglierne in vetta il Fiore Raro. Ora è vostro: ecco”. Una concessione, quasi; un gesto di grandiosa (e immodesta) liberalità.

Data la crisi, le tecnologie e le nuove esigenze sociali, molti sono convinti che i media tradizionali, per sopravvivere, debbano fare di più e meglio. Ne sono convinto anch'io. Mi sembra poco probabile, tuttavia, che ci riusciranno a colpi di “ecco”. Meno alterigia e più professionalità: volevo solo dire questo. Ecco.

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