Ho visto Matteo Renzi e Nicola Porro scambiarsi, nella trasmissione “Virus”, domande e risposte alla velocità con cui due tennisti di vaglia mondiale si prendono reciprocamente a pallate. Leggo “tweet” che sono un concentrato di arguzia, cinismo e malizia: in 140 caratteri l’intelletto viaggia leggero, va dritto a quello che crede essere il punto, non fa prigionieri e vorrebbe, se appena può, far sentire il destinatario inferiore davanti a tanta acutezza a tiro rapido. Io, che in 140 caratteri neanche riesco neanche a dire “buonanotte” (e la lunghezza di questa rubrica - duemila battute circa - lo dimostra), vorrei oggi proporre una sorta di manifesto contro la velocità di parola.
Sarei tentato di opporre agli sprinter del pensiero - da Renzi e Porro in giù - uno slogan tipo “Rallenta che ti perdi” oppure “Aggiungi due sillabe ma fatti capire”. Mi rendo conto però che il concetto di slogan è proprio ciò che intendo combattere. La frase che raggiunge, impressiona e scappa via si propone infatti di conquistare, battuta dopo battuta, il territorio sacro della nostra libertà di pensiero. Si comporta da scaltro borseggiatore: ci alleggerisce di idee lasciando l’impressione di avercene regalata qualcuna.
Ecco, allora, l’elogio del pensiero ruminato, lungo, perfino tedioso. Arriverei a esaltare le gioie, soporifere ma rilassanti, dell’inciso, dell’incertezza, del però, del forse, del tuttavia e del peraltro. Armi vecchie, sempre più spesso scartate da una sintassi che si vuole nervosa quando in realtà è soltanto imprecisa, ma anche strumenti che, alla lunga, possono aver ragione dei concetti fulminei e superficiali tanto di moda.
Una volta tranquillizzati gli agitati del linguaggio, potremo finalmente tornare ad apprezzare i veri maestri della battuta fulminante, i geni del calembour, gli esteti dell’haiku. Come la battuta, un po’ d’epoca, che da sola fece la fortuna del comico Henny Youngman: “Take my wife... please”. Prendete mia moglie... per favore.
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