Sembra la cosa più semplice del mondo: qualcuno dice una battuta e qualcun altro ride. A volte accade che qualcuno dica una battuta e nessuno rida (tra l’altro, è questo il riassunto della biografia di Renato Brunetta) e anche qui, nessuna apparente complicazione: «Si vede - è la nostra deduzione - che la battuta non faceva ridere».
Già, ma che cosa esattamente “fa” ridere? Che cosa, in altre parole, innesca il meccanismo per cui una frase, un breve racconto, un’osservazione, ci spingono precisamente nella direzione del riso e non in un’altra (l’indifferenza, la noia, il disgusto)?
Ancora una volta, la scienza viene in nostro soccorso. Uno studio pubblicato di recente nella rivista “Scientific American” riferisce e analizza le reazioni cerebrali riscontrate in un certo numero di volontari ai quali era rivolta una battuta nella sua forma più elementare: quella del gioco di parole. La scoperta più interessante, a mio avviso, non sta tanto nella reazione del cervello (che si manifesta come una curiosa collaborazione dell’emisfero destro con quello sinistro, con il primo che corre in soccorso del secondo rivelandogli la natura paradossale di ciò che ha appena sentito), quanto l’emergere, come sottoprodotto dello studio, di una precisa definizione di “battuta”.
Nell’esaminare il cervello e la sua risposta a un “calembour”, gli scienziati hanno compreso che a “far” ridere è il sovvertimento di un’aspettativa verso un compimento non dannoso o malevolo. Una battuta di Woody Allen («Sono stato escluso dalla squadra di scacchi a causa della mia altezza») “fa” ridere perché dirotta verso qualcosa di imprevisto (ma non maligno) una dichiarazione apparentemente destinata all’ovvio. Brunetta - e tutti gli altri sparpagliatori di sarcasmo polemico - si limitano all’aspro e allo sprezzante, come se tanto bastasse a riscattare con l’humour l’inevitabile banalità del loro pensiero. Questo non solo non fa ridere, ma alimenta lo sconforto generale che, ormai, ci ritroviamo alle caviglie.
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