Può un film essere “il più bello di sempre” per qualche decennio e poi non esserlo più? Può un altro film essere considerato, per decenni, “tra i film più belli di sempre” ma senza mai essere “il più bello” e poi, un giorno, diventarlo? Che cosa è cambiato, nel frattempo? Non i film, di certo: rimasti identici fotogramma per fotogramma. È allora cambiato chi li giudica? Sì, certo: una nuova generazione di critici si è sostituita alla precedente e anche il pubblico si è rinnovato. Forse il film a lungo “più bello” ha perduto qualcosa in freschezza e attualità, forse il nuovo “più bello” ha casualmente colto un cavallone sociale o estetico che lo ha spinto in cima, sopra a ogni altra pellicola.
Mi chiedo tutto ciò perché il clamoroso cambio della guarda al vertice della classifica dei film “più belli di sempre” è avvenuto: dopo 50 anni “Quarto potere” (Citizen Kane, 1941) di Orson Welles è stato scalzato da “La donna che visse due volte” (Vertigo, 1958) di Alfred Hitchcock nella classifica redatta, tramite voto, dal prestigioso British Film Institute. Perché l’ingegnosa ricerca sul tema del doppio, dello specchio e dell’apparenza firmata da Hitchcock abbia superato la monumentale opera sull’identità profonda dell’uomo girata da Welles è un mistero sul quale non mi sento di speculare. Lo farà senz’altro qualcuno più esperto e più bravo di me.
Io, a margine, mi accontento di constatare che il mio film prediletto fa capolino al terzo posto. Ritrovarlo così in alto nelle preferenze dei critici mi fa piacere ma, nello stesso tempo, mi induce un moto di fastidio. Trovo che il film in questione sia così “bello” nel suo ridurre all’assoluto essenziale la narrazione cinematografica per mettere a nudo, senza imperfette distrazioni, i sentimenti di perdita e transizione che racconta, da non poter essere incluso in nessuna classifica: se superlativo deve essere, che sia assoluto e non relativo. Il film, per chi non lo ha visto, o per chi volesse rivederlo, è “Viaggio a Tokyo” (Tokyo monogatari, 1953) di Yasujiro Ozu.
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