Se c’è una cosa che mai avrei pensato di diventare nella vita è “saccomanniano”. O “squinziano”, se è per questo. Ma tant’è: nell’Italia del 2013 esattamente questa è l’alternativa che si pone.
Riassumo per i più distratti. Due giorni fa, il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni ha sostenuto che, secondo lui, se la crisi se non è finita poco ci manca. «Vedo la luce in fondo al tunnel» è stata la sua dichiarazione. Subito abbiamo pensato tutti alla scontata battuta: «Quella, Saccomanni mio, non è altro che la luce di testa del treno in arrivo». Così ha senz’altro pensato il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi: «Io di luci non ne vedo ancora» ha infatti ribattuto: «La produzione industriale è ancora molto indietro rispetto a un anno fa».
Il dilemma aperto da Saccomanni e Squinzi è talmente archetipico e seminale (paroloni per dire che si tratta di una questione fondamentale) da rendere irrilevante stabilire chi, tra i due, abbia in effetti ragione. La scelta è un’altra: vogliamo essere “saccomanniani” o “squinziani”? In altre parole, vogliamo essere ottimisti o pessimisti? Addirittura potremmo spingerci oltre: possiamo, in realtà, scegliere di essere ottimisti piuttosto che ottimisti, oppure qualcosa di primordiale e genetico ci lega a uno o all’altro atteggiamento?
La crisi è cosa talmente vasta e articolata da sfuggire sia alla visione di Saccomanni sia a quella, opposta, di Squinzi ma, intesa come sentimento generale e come grado di difficoltà che incontriamo nel vivere quotidiano, ci impone comunque di scegliere tra l’una e l’altra.
L’ottimismo, dicono studi statistici e psicologici, è più che altro una speranza, un alito di irrazionalità. Potremmo definirlo il fischiettare dell’anima: non serve a nulla ma mette di buonumore. Il pessimismo è purtroppo impastato di realtà, in qualche modo è più vero e probabile. L’assurdo sta nel fatto che, per la vita, il primo è molto più necessario del secondo.
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