Ieri, dopo avervi intrattenuto (?) sul tema della memoria che se va, subito mi sono ripromesso di parlarne anche oggi. Eccomi qui, dunque, deciso a rispettare l’impegno con me stesso ed esultante per il fatto di... essermene ricordato.
Il desiderio di tornare sul tema è dettato da una necessità: quella di trovare un alibi per il crescente numero di dimenticanze che costellano le mie giornate. Certo, non posso respingere del tutto la verità: la memoria declina insieme al corpo e per tale processo non c’è che un colpevole, ovvero il tempo che passa. Mi coglie però il sospetto che ci sia dell’altro e cioè che il tempo, oggigiorno, non si limiti a “passare”, attività cinica e nobile insieme, svolta impeccabilmente per miliardi di anni, ma abbia preso a tirarci in continuazione per la giacca. Non è colpa del “tempo” in sé, si capisce, perfettamente contento di continuare a stritolarci con la pazienza che lo contraddistingue, ma dell’uso che ne facciamo.
Il tempo di noi tutti, oggi, è sovrapposto, stratificato: ci è richiesto di essere presenti e attivi su più livelli contemporaneamente. Al lavoro, abbiamo svariati incarichi da svolgere nello stesso momento; a casa, ci sottoponiamo a stimoli coincidenti, spesso in conflitto, che all’unisono richiedono la nostra attenzione.
Su tutto, poi, si stende “l’altra” vita, quella che ormai ognuno conduce in parallelo a quella tradizionale: la vita della Rete, dei social, che si intreccia - dentro e fuori, dentro e fuori - con l’esistenza “concreta”, in modo da raddoppiarla, farle eco, sottolinearla, darle enfasi e incrementare lo sforzo per sostenerla.
Bella teoria, non trovate? Peccato che potrebbe essere del tutto sbagliata: in effetti, non ho alcun elemento concreto per sostenerla. E però - se volete crederci - è così. In fondo basta chiudere gli occhi per accorgersene: il tempo pare assestarsi, scorre piatto come un torrente giunto stanco in pianura e la memoria, in pace con se stessa, si ricompone.
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