Fuori i nomi

So bene che la stampa non gode di eccellente reputazione. Ci sono tuttavia momenti in cui essa ha un pregio: quello di spazzar via le ipocrisie, i pensieri di contorno, le cortine fumogene verbali, e di arrivare diritta al punto. Cosa che sta facendo proprio in questo preciso momento, ovvero nelle ore in cui un presidente del Consiglio incaricato sta cercando di mettere insieme un governo.

Dirette streaming a parte, che comunque rivelano meno di quanto promettono, la formazione di un governo è, piaccia o no, una faccenda molto più privata che pubblica. Il processo è composto in gran parte da colloqui segreti, intese separate, assicurazioni trasmesse in un bisbiglio, bigliettini piegati in quattro e strette di mano repentine. In questa fase, i protagonisti delle trattative, presentandosi davanti ai giornalisti, amano tenersi sul vago: «L’intesa procede ma ci sono nodi da sciogliere», «Valuteremo caso per caso» e, soprattutto, il grande classico «Abbiamo avuto un franco colloquio». Proprio in questo frangente si erge finalmente salvifico l’esilarante pragmatismo della stampa che, nel registrare sbadatamente queste vaghezze, subito chiede: «Sì, vabbè: ma i nomi?»

Con «nomi», è ovvio, qui si intende quelli dei ministri. Che i politici non danno, è altrettanto ovvio, e che i giornali a questo punto inventano: Brunetta all’Economia, anzi no, alla Difesa. Monti agli Esteri, D’Alema all’Istruzione, Balotelli alla Salute e Capitan Findus all’Ambiente. Tutti tentativi alla cieca, nomi in libertà nella miglior tradizione del calciomercato, per un’operazione giornalistica perfettamente vana ma che risponde a un’esigenza sociale: applicare una faccia, o più di una, alle responsabilità e fornire un’identità al basso gossip nazionale. «Brunetta? Ma chi? Quello basso? D’Alema? Ancora lui! Nooo...» Non c’è utilità in tutto ciò, se non l’assicurare alla gente una soddisfazione quotidiana, un piacere minuscolo che si fa tuttavia diritto fondamentale, un po’ come il grattarsi o ficcarsi le dita nel naso.

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