Quando si incappa in un buon libro sul cinema non si può fare altro che aggrapparcisi e sperare che non finisca mai. Almeno, è ciò che accade a me. E dico "accade" perché sta accadendo proprio in questo momento con il libro di David Thomson "The big screen".
Critico cinematografico inglese trapiantato in America, Thomson ha aggiunto suo libro un sottotitolo che, se questo testo fosse stampato su carta patinata, bisognerebbe per legge definire intrigante: "La storia dei film e di ciò che ci hanno fatto". Non la storia del cinema, dunque, ma dei film o, meglio ancora nell'originale, dei "movies", contrazione di "moving pictures", immagini in movimento. Thomson si è posto il traguardo di raccontare il rapporto dell'uomo con lo schermo "da Muybridge a Facebook”, con riferimento al fotografo che grazie a una serie di scatti fissi immortalò il movimento di un cavallo al galoppo dando inizio alla preistoria della cinematografia.
Così, leggendo del rapporto del cinema con l'arte e il commercio, con la politica e la propaganda e con i sui prodotti più fragili e complessi, il divismo e la celebrità, Thomson dispiega tutte le sue conoscenze per aprirci gli occhi davanti allo schermo. Per paradossale che sia, la nostra esperienza con le immagini è vasta ma parziale: un film alla volta, uno show in tv alla volta, un video su YouTube alla volta. Tutto ciò in realtà passa da una storia che ancora riverbera: dall'arte prestata alla dittatura (Eisenstein e Riefenstahl), al sogno americano venduto ai disoccupati della Grande depressione (Meyer e Thalberg), attraverso il cinema, come dice Thalberg, qualche cosa "ci hanno fatto" ed è importante capire che cosa.
Oggi ci crediamo bombardati di immagini, ma probabilmente l'assedio non è così determinante sulle coscienze come lo fu nei primi decenni del XX secolo, quando la cinematografia irruppe nelle vite di milioni di persone. Eppure, quello choc continua anche oggi. "Garbo ride" diceva il manifesto di un film con la glaciale diva svedese. E l'eco di quella risata risuona ancora.
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