Capisco che andare sul leggero di questi tempi potrebbe sembrare sgarbato in un Paese il cui lacerante dibattito si consuma sulla crisi dell’economia, il ribollire dello spread, le giunture di Balotelli e le parentele della signorina Ruby Rubacuori.
Io però - e da tempo l’avrete capito - sono in sostanza un irresponsabile, nel senso che manifesto spesso, e senza pudori, una certa insofferenza per i dibattiti veri o presunti sulle vere o presunte emergenze nazionali. La mia mente, piuttosto, vaga libera (o, meglio, prigioniera solo di se stessa) per altre praterie.
Ieri, per esempio, mentre intorno a me fioccavano commenti sulla “sentenza Ruby” io, sfacciato come mai, pensavo: «Ma perché il passato remoto mi mette sempre di buon umore?»
Fateci caso: ormai si usa il passato remoto solo per facezia. Il passato prossimo gode del monopolio orale e, in molti casi, perfino di quello scritto; al passato remoto restano i territori, limitati, del romanzo e, appunto, della celia. Dire «andasti a fare la spesa?» invece di «sei andato a fare la spesa?» solleva un sorriso e stimola il buonumore. Ma perché?
Le ragioni, credo, stanno nella scarsa abitudine all’uso di una forma verbale che, come molte altre cose in questo Paese, divide invece di unire: passato remoto è spesso sinonimo di “Sud arretrato”, pedanteria, uso libresco della lingua e, non da ultimo, di mentalità borbonica. Per questo ci fa ridere: usandolo, indossiamo una maschera che, così crediamo, distorce la nostra personalità in modo grottesco.
Io sarei per un rilancio del passato remoto dal quale esonererei solo gli stranieri. A noi italiani farebbe invece bene recuperarlo quale benefica ginnastica al cervello: «Ti ricordi quando nonna cosse l’uovo in camicia per il nonno?» «Ma certo! Nello stesso giorno Luigi dirimé un’importante questione». «Quale?» «Nocque di più l’influenza a Gaetano o più grave fu quando Lisa incusse timore a Renato?»
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