Giocatori

Giocatori

Dovessimo, un giorno, sforzarci di inquadrare in poche parole la stagione in cui viviamo, saremmo finalmente costretti a riconoscere che questi ultimi quindici o venti anni altro non hanno portato se non la disintegrazione del mito.

Prendiamo il gioco d’azzardo. Le generazioni più anziane ce lo hanno consegnato colmo di virile e misterioso fascino. Da Steve McQueen che gioca a poker contro Edward G. Robinson in "Cincinnati Kid", al disperato "chemin de fer" del "Piatto piange" di Chiara c’è un filo conduttore: il gioco come sinonimo di rischio e di liberazione. Nei giocatori di quella razza convivevano spirito e ossessione, perdizione e volontà. Il gioco richiedeva abilità, resistenza, durezza psicologica, spietatezza. Nell’immaginario, poi, i casinò erano luoghi di spie e avventurieri, bari impenetrabili e donne, beh, non altrettanto.

Cosa sia successo, non si sa, ma il gioco d’azzardo è cambiato. Non dico Steve McQueen, ma il luinese Càmola non vorrebbe avere nulla a che spartire con questa nuova generazione di scommettitori rassegnati, tristi, prigionieri dell’estrazione numerica, del fato scoperto grattandolo con una moneta, del salto quotidiano in tabaccheria, del destino affrontato in canottiera.

I giocatori di un tempo erano guardati con meraviglia e inorridita curiosità: come potevano giocarsi il destino a carte? Quelli di oggi li squadriamo con inorridito disinteresse: figure cerose, più che pallide, dall’occhio liquido, il labbro cascante, il passo da automa. Pensate: per giocare le loro insulse schedine vanno allo sportello. Come per pagare le tasse, spedire una raccomandata, ritirare la pensione. Steve McQueen, allo sportello, si avvicinava giusto per rapinarlo. Altrimenti non si faceva neanche vedere.

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