Giorno triste

Porca miseria se è stata dura. Perdonate l’esordio un poco brusco ma, accidenti, ce l’hanno fatta sudare. Ricorderò la giornata di ieri come un brutto sogno. Uno di quegli incubi che si svolgono al rallentatore, in cui tutto diventa faticoso, appiccicaticcio, stancante.

Di solito, durante queste parentesi oniriche, sentiamo di avere un compito, un incarico delicato - può anche essere un desiderio pressante - ma ci viene difficile se non impossibile portarlo a compimento. Capita di sognare di essere al lavoro e di non riuscire a combinare nulla; oppure - la scena si è spostata in strada - abbiamo un appuntamento ma mille impicci, altrettanti ostacoli e, soprattutto, un tremendo senso di spossatezza, ci impediscono di onorarlo.

Ieri, l’incubo a occhi aperti mi ha trasportato in un Paese in cui io, desideroso di conversare su qualunque argomento che non fosse la destistenza, mi sentivo sprofondare in una palude di omologazione linguistica: pro o contro Silvio, ma comunque di lui impregnata, a lui devota e, in ultima analisi, a lui confacente.

Forse Beckett avrebbe potuto trarre ispirazione dal mio incubo berlusconiano.

Io: «Lo sapeva che metà del genoma umano è uguale a quello della banana?» Chiunque altro: «Interessante. Il voto di questa sera pone fine a una paralisi politica che ha bloccato il Paese per vent’anni». Io: «Pochi sanno che Franklin Delano Roosevelt, presidente degli Stati Uniti tra il 1933 e il 1945, soffriva di triscaidecafobia, ovvero della paura del numero 13». Chiunque altro: «Davvero? Una giustizia a orologeria per togliere di mezzo l’unico baluardo della libertà in questo povero Paese».

E via così, con me, povero sognatore sfinito dallo sforzo di sfuggire, nella comunicazione, a un argomento obbligato e i tanti, troppi, che a questo argomento mi riportavano per forza, con un’ostinazione disincantata e in qualche modo intollerante. In questo, ha ragione Berlusconi: «Un giorno triste per la democrazia».

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