Il fatto che due donne - Virginia Raggi e Chiara Appendino - siano diventate sindaco (sindache?) di grandi città come Roma e Torino mi sembra altissimamente significativo. Al punto che, per principio, mi asterrò dal leggere, sull’evento, commenti firmati da uomini, e per conseguenza diretta, eviterò di scriverne uno.
Tanto più che la notizia contiene un secondo risvolto sensazionale, che il sesso delle sindaco (sindache?) parzialmente oscura ma non cancella del tutto. Il risvolto è che le due signore sono giovani: 37 anni Virginia Raggi, 32 Chiara Appendino.
Premesso che ognuno è trentenne a modo suo, e che si può essere maturi a vent’anni e infantili a sessanta, mi chiedo con quale atteggiamento generale ci si possa accostare, in quella particolare fase della vita, a un impegno così importante come amministrare una metropoli. Non ho altro modo, per farlo, che tornare con la memoria ai miei trent’anni e cercare di immaginarmi alle prese con un impegno di commensurabile portata.
I trent’anni, per come me li ricordo, sono un’età in cui le certezze istintive coltivate durante la giovinezza si consolidano mescolandosi alla ragione. In altre parole, è un periodo di misurata arroganza. Non è quest’ultima una parola dal connotato del tutto negativo: per come la intendo qui, essa rappresenta un carburante che può spingere a cercare il cambiamento, a imporre innovazioni e a ribaltare prassi consolidate. Il tutto sulla base di una gran fiducia nei propri mezzi, nella chiara visione di un possibile miglioramento e, soprattutto, nell’incantata ignoranza del fatto che ogni cosa, in un tempo o in un altro, è già stata tentata: ogni rivoluzione, ogni innovazione, ha dapprima trionfato e poi fallito, prima illuso e poi deluso. Di questo ciclo - largamente illusorio - c’è però bisogno: per formare i giovani e confortare i vecchi.
«Se la giovinezza è la stagione della speranza, lo è spesso solo nel senso che i più anziani sono pieni di speranza per noi»: diceva George Eliot. Che tra l’altro, guarda la coincidenza, era una donna.
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