Mia madre aveva due libri di cucina. Uno - il classicissimo Artusi in un’edizione, credo, preguerra - non aveva fotografie: solo disegni qui e là per dimostrare come si arriccia un tortellino o per fissare le dimensioni esatte del disco per cappelletti. L’altro, più moderno, le fotografie le aveva, ma non per ogni ricetta: raccolte nel fascicolo centrale, illustravano con abbondanza e calore una manciata di produzioni succulente quali arrosti, volatili ripieni e dessert, tra i quali spiccava un solenne zuccotto dall’architettura ispirata al Brunelleschi. In tutto, una decina, forse venti immagini.
Immagino rimarrebbe stupita, la mamma, dall’odierna abbondanza di documentazione fotografica raccolta in cucina. La sorprenderebbe ancora di più il fatto che molta parte di essa non ha alcun riferimento con la ricetta necessaria a confezionare quanto illustrato. Non ci sono ingredienti e dosi ad accompagnare le foto di risotti e pastasciutte, non si trova alcuna indicazione su come realizzare torte salate e polente condite. Ma se non hanno scopo esplicativo, allora perché ci sono tante foto di cibo in giro? Perché, in sostanza, fotografiamo nel piatto in cui mangiamo?
Credo influisca il desiderio di farci elogiare: «Guarda che cannelloni ha fatto la Luisa! Ma quando ci inviti a cena?». E, dietro la pagina del social network, sorge un rossore di compiacimento che neppure i fornelli hanno saputo stimolare.
Sono convinto però ci sia dell’altro: un desiderio recondito di spargere intorno a noi cose buone, di trasformare la materia che ci circonda in qualcosa di meno ostile e, anzi, più godibile, di quanto normalmente appaia. C’è, in chi si arrabatta ai fornelli e pubblica il risultato, la voglia di dimostrare che cambiare le cose in meglio si può: a cominciare dalla chimica degli ingredienti. Basta tenere a mente, aggiungerei, che per quanto sia bello condividere, testimoniare e ricordare, la cosa migliore della vita, in certi momenti, rimane gustare.
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