Non c’è politico che, da un palco o in tv, non si sia riempito la bocca almeno una volta con l’espressione «lotta al terrorismo». In alcuni casi, di fronte a episodi criminali particolarmente gravi, i personaggi in questione sembrano ritenere la parola «lotta» troppo angusta e passano direttamente alla «guerra»: «Guerra al terrorismo».
Ma come e con quali risultati l’Occidente conduce questa «Guerra al terrorismo»? Beh, naturalmente ci sono bombe e i bombardamenti: eventi, per noi, piuttosto remoti tanto che le potenze in campo, oltre che cercare di neutralizzare le basi dei terroristi, ne approfittano anche per regolare qualche conto in sospeso tra loro.
C’è poi la prevenzione, ovvero la guardia ai cosiddetti “obiettivi sensibili”: polizia ed esercito schierati nelle strade. Infine, ci sarebbe l’attività di investigazione: indagini giudiziarie tese a identificare e arrestare i terroristi che vivono in mezzo a noi.
Quest’ultimo aspetto della «Guerra al terrorismo» sembra il più controverso. In primo luogo perché molti terroristi non sono tali prima di diventarlo: slegati da vere e proprie organizzazioni, decidono all’improvviso di “elevare” il loro status da criminali comuni e mezzi (o interi) balordi a jihadisti e “martiri”. Inoltre, perché i dati sull’attività antiterroristica lasciano perplessi.
Prendiamo gli Stati Uniti: dal fatidico 11 settembre 2001, negli Usa sono state indagate per terrorismo 796 persone, di cui 573 hanno patteggiato e 175 sono state condannate a processo. Ben poche di queste hanno risposto per reati violenti: perlopiù si tratta di irregolarità nelle pratiche di immigrazione, distribuzione di materiale propagandistico, falsa testimonianza. Più di 400 sono già state rilasciate, la maggior parte senza misure di sorveglianza. Una guerra, insomma, per forza di cose modesta e generica: quasi lo sforzo di chi cerca di prevenire un incubo. Per questa ragione, se appare improbabile che perderemo la «Guerra al terrorismo», vincerla sarà quasi impossibile.
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