Non credo sia giusto incolpare soggetti più o meno astratti come la società, lo Stato, la crisi o il baudeleriano spleen quando c’è un individuo responsabile, penalmente, civilmente e umanamente, al quale chiedere conto della malvagità che, a palazzo di Giustizia di Milano, ha provocato tre vittime innocenti. Ciò detto, bisogna pur ammettere che quando si ripropone il tema della sicurezza, della necessità di aumentarla, di perfezionare i controlli e di ripararne le falle, dobbiamo ammettere, dicevo, a malincuore, che il nostro progetto - meglio: la nostra speranza - di costruire un consesso umano decente e sicuro va a farsi benedire ancora una volta.
Telecamere di sorveglianza occhieggiano dai cantoni stradali, metal detector frugano le nostre persone e i nostri bagagli in aeroporto ed è difficile addormentarsi tranquilli se non si è attivato l’allarme di casa o, almeno, verificato che la porta sia chiusa a doppia mandata. Tutto questo dimostra che la mappa geografica della società - poco importa che la si voglia chiamare Paese, nazione, provincia, regione o comune - è fatta di appezzamenti privati, e fin qui c’è poco da obiettare, sorvegliati più o meno attentamente, difesi nella consapevolezza che, là fuori, c’è qualcuno che per disperazione, pazzia, malvagità, invidia, avidità o noia rifiuta di adeguarsi e vorrebbe fare a pezzi il nostro soave angolino.
Non ho soluzioni da proporre o morali da impartire. Dico solo che il concetto di sicurezza a colpi di filo spinato, perquisizioni e metal detector è comunque imperfetto. Giusto correre ai ripari se, come sembra, il sistema di protezione del palazzo di Giustizia milanese era un colabrodo, ma è illusorio pensare che il problema possa essere risolto una volta per tutte.
È impossibile che l’uomo sopprima del tutto la sua malvagità. “Homo homini lupus” dicevano i latini. Sbagliavano: i lupi, tra loro, osservano regole ben più sacre, stabili e leali.
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