I due siti

Il sito di un grande giornale nazionale proponeva ieri, dritto nell’homepage, una “fotogallery” dedicata a Pompei e ai suoi “disastri”. Una premessa perfettamente mantenuta dalle immagini: un motorino parcheggiato tra le rovine, le aree archeologiche trasformate in acquitrini, i lavori lasciati a mezzo con tubi penzolanti e cavi che affiorano dal terreno. Dieci foto, o poco più, per documentare un orrore.

Vien rabbia, e tanta, perché gli originali abitanti Pompei non possono più difendersi. I lapilli del Vesuvio son stati, per loro, una doppia disgrazia: non solo hanno portato la morte nelle loro strade, ma le hanno conservate nei secoli in modo che noialtri, quasi duemila anni dopo, si possa riempirle con altro ciarpame, altri veleni, altre assurde incongruenze.

Da quanto è dato sapere delle loro abitudini, i pompeiani non erano né santi né rigorosi esteti. La città comprendeva ville signorili e case eleganti ma anche lupanari da spavento, con i muri imbrattati dalle scritte dei clienti in attesa del loro turno. Non c’era però - e non poteva esserci - quella devastante trascuratezza con cui solo oggi, dopo decenni impenitenza morale, arrogante ignoranza e sciocca agiatezza, siamo in grado di segnare il nostro passaggio.

Ancora più straordinario è che, pur capaci di indignazione per il brutto che spargiamo intorno a noi stessi, sembriamo incapaci di fermarci, o almeno di stabilire un limite. Produciamo il brutto nel momento stesso in cui lo denunciamo. L’indignazione viaggia sullo stesso canale del suo contrario, la denuncia passa sulla stessa lunghezza del crimine. Lo dimostrava il sito di cui sopra pubblicando la gallery dello scempio accanto a un profilo dedicato alle sorelle Kardashian, al matrimonio (finito) di Valeria Marini e al ritorno (barbuto) di Boy George. Dev’essere questa la ragione perché per l’area archeologica di Pompei e per quella informativa del giornale si usa la stessa definizione: “sito”. Ovvero un posto che fa da discarica alle buone intenzioni.

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