Ci sono parole, nella lingua italiana, cui andrebbe concesso un periodo di riposo. Quel momento, credo, è arrivato per "grande".
Se ci fate caso, il lemma "grande" si è fatto carico sulle sue pur capaci spalle di una serie di significati che, in origine, non gli competono. In particolare quelli di "bravo" (con il superlativo "bravissimo"), "valoroso", "brillante", "arguto", "capace", "eccelso", "geniale", "efficiente", "opportuno". "Grande", oggi, può essere chiunque faccia o dica una cosa che appaia particolarmente azzeccata nel momento e nel contesto assegnatole: il portiere mentre para un rigore, l’onorevole quando replica con una facezia all’attacco di un avversario, Gasparri quando non replica con una facezia all’attacco di un avversario, il collega che ci offre un inaspettato caffè alla macchinetta, il commesso nel caso estragga dallo scaffale i mocassini della giusta misura e infine la mamma nell’istante in cui sforna i biscotti.
Naturalmente, in tutti questi casi l’impiego di "grande" è esagerato, ma si tratta di un’enfasi tollerata. Come per tanti luoghi comuni, l’eccesso di significato viene automaticamente depurato dalla mente che raccoglie solo ciò che le interessa: "grande", per paradosso, può diventare anche qualcosa di molto piccolo purché, nel momento, sia sorprendente o significativo.
Interessante, poi, che a "grande" si associ spesso l’articolo indeterminativo "un" (o "una"): se ne ricava un’espressione che tende a mettere il soggetto su un piedistallo. Il portiere para-rigori? «Un grande!» La mamma pasticciera? «Una grande».
Chissà quale significato recondito ha la scelta di elogiare il prossimo - specie se nostro amico o alleato - con un aggettivo che ne ingigantisce a sproposito la figura. Non voglio azzardare congetture spericolate, ma dubito faccia onore alle nostre dimensioni morali. In altri termini, non mi stupirebbe scoprire che "grande" sia l’espressione preferita anche nella terra di Lilliput.
Se ci fate caso, il lemma "grande" si è fatto carico sulle sue pur capaci spalle di una serie di significati che, in origine, non gli competono. In particolare quelli di "bravo" (con il superlativo "bravissimo"), "valoroso", "brillante", "arguto", "capace", "eccelso", "geniale", "efficiente", "opportuno". "Grande", oggi, può essere chiunque faccia o dica una cosa che appaia particolarmente azzeccata nel momento e nel contesto assegnatole: il portiere mentre para un rigore, l’onorevole quando replica con una facezia all’attacco di un avversario, Gasparri quando non replica con una facezia all’attacco di un avversario, il collega che ci offre un inaspettato caffè alla macchinetta, il commesso nel caso estragga dallo scaffale i mocassini della giusta misura e infine la mamma nell’istante in cui sforna i biscotti.
Naturalmente, in tutti questi casi l’impiego di "grande" è esagerato, ma si tratta di un’enfasi tollerata. Come per tanti luoghi comuni, l’eccesso di significato viene automaticamente depurato dalla mente che raccoglie solo ciò che le interessa: "grande", per paradosso, può diventare anche qualcosa di molto piccolo purché, nel momento, sia sorprendente o significativo.
Interessante, poi, che a "grande" si associ spesso l’articolo indeterminativo "un" (o "una"): se ne ricava un’espressione che tende a mettere il soggetto su un piedistallo. Il portiere para-rigori? «Un grande!» La mamma pasticciera? «Una grande».
Chissà quale significato recondito ha la scelta di elogiare il prossimo - specie se nostro amico o alleato - con un aggettivo che ne ingigantisce a sproposito la figura. Non voglio azzardare congetture spericolate, ma dubito faccia onore alle nostre dimensioni morali. In altri termini, non mi stupirebbe scoprire che "grande" sia l’espressione preferita anche nella terra di Lilliput.
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