Aveva ragione Quentin Tarantino quando, interrogato sulla scelta dei “cattivi” per il suo film “Inglorious Basterds”, disse che «con i nazisti non si sbaglia mai». Un bel nazista è facile da odiare, ben pochi cercheranno di difenderlo e, per citare il maestro di “Pulp Fiction”, «a nessuno interessa sentire la sua versione dei fatti».
Ecco perché, alla morte di Eric Priebke, un po’ tutti abbiamo approfittato di questa “licenza di odiare”. Priebke, diciamola tutta, questo odio anche postumo se l’è cercato : non vale neppure la pena riassumere la sua carriera di criminale e sarebbe una perdita di tempo ricordare il piglio arrogante con il quale ha affrontato la sconfitta, il biasimo, la colpa e la condanna. Non c’è da sorprendersi, dunque, per le invettive, i sarcasmi e la trattenuta euforia che hanno accompagnato la sua dipartita. E in fondo non c’è da sentirsi in colpa: come insegna Tarantino, i nazisti sono fatti apposta per essere odiati. I nazisti e gli schiavisti, che infatti il regista si diverte a fare a pezzi nel suo ultimo “Django Unchained”.
Sovviene però una domanda. Al di fuori dell’intrattenimento cinematografico - che sfrutta il nostro odio per incanalarlo verso un climax liberatorio - tutto questo astio a che cosa serve? Il problema si pone non tanto per lo scrupolo di risparmiare a Priebke un’ultima, legittima, infornata di disprezzo, quanto perché tale sentimento ci appartiene e vale pertanto la pena capire che cosa dice, non di un criminale ormai trapassato, ma di noi stessi.
Detestare la figura di Priebke può essere utile per aggiornare l’inflessibile giudizio negativo sul nazismo, ma diventa infine solo uno sfogo miserevole per le nostre pulsioni più violente. E allora, più che odiare Priebke, ormai per noi solo polvere nella polvere, potremmo pensare di utilizzare il nostro sdegno per cercare di tenere a bada quei minuscoli, intolleranti, meschini e ignoranti Priebke che, di tanto in tanto, spuntano dentro di noi.
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