Non ho visto (ancora) il film di Marco Bellocchio "Bella addormentata" presentato qualche giorno fa a Venezia. A maggior ragione, non ho visto neppure quello di Francesca Comencini ("Un giorno speciale") che al Lido è stato proiettato appena ieri. Ho notato solo che nel trailer del primo, a un certo punto, un tizio esagitato grida «Libertà! Libertà!»: secondo certe letture del cinema italiano, basta questo ad assicurare alla pellicola lo status di capolavoro.
Ciò detto, spero siano proprio "Bella addormentata" e "Un giorno speciale", o anche qualche altro film di prossima uscita, a liberare l’arte cinematografica italiana da un sortilegio di cui è prigioniera da alcuni decenni ormai e che la rende incapace di rappresentare il Paese. Incapacità tanto più evidente rispetto alla precedente adesione, quasi perfetta, dei film ai sentimenti e ai moti della gente. Un cinema, quello di allora, in grado prima di tutto di afferrare le spinte essenziali della società, le sue più profonde palpitazioni, e quindi di declinarle, a seconda dell’inclinazione di registi e sceneggiatori, in racconti comici, satirici, drammatici, con tutte le sfumature del caso: toni amari, benevoli, venature di cinismo, aperture liriche, perfino tagli surreali.
Proprio ciò che manca oggi: di una società almeno altrettanto tormentata (ma forse più disillusa), non c’è chi sappia tratteggiare con precisione il carattere. Se dovessi, dal profondo della mia ignoranza, indicare che cosa impedisce al cinema italiano di tornare all’efficacia esibita qualche lustro addietro, direi senz’altro: un difetto di onestà. Quell’onestà, stanca, amara, per paradosso addirittura disonesta che, ne "Il Sorpasso", strappa a Vittorio Gassman, prossimo ad assopirsi in spiaggia, una distratta confessione: «Cretino tu? Ma no. Anzi, sei in gamba. Sono io il balordo».
Ciò detto, spero siano proprio "Bella addormentata" e "Un giorno speciale", o anche qualche altro film di prossima uscita, a liberare l’arte cinematografica italiana da un sortilegio di cui è prigioniera da alcuni decenni ormai e che la rende incapace di rappresentare il Paese. Incapacità tanto più evidente rispetto alla precedente adesione, quasi perfetta, dei film ai sentimenti e ai moti della gente. Un cinema, quello di allora, in grado prima di tutto di afferrare le spinte essenziali della società, le sue più profonde palpitazioni, e quindi di declinarle, a seconda dell’inclinazione di registi e sceneggiatori, in racconti comici, satirici, drammatici, con tutte le sfumature del caso: toni amari, benevoli, venature di cinismo, aperture liriche, perfino tagli surreali.
Proprio ciò che manca oggi: di una società almeno altrettanto tormentata (ma forse più disillusa), non c’è chi sappia tratteggiare con precisione il carattere. Se dovessi, dal profondo della mia ignoranza, indicare che cosa impedisce al cinema italiano di tornare all’efficacia esibita qualche lustro addietro, direi senz’altro: un difetto di onestà. Quell’onestà, stanca, amara, per paradosso addirittura disonesta che, ne "Il Sorpasso", strappa a Vittorio Gassman, prossimo ad assopirsi in spiaggia, una distratta confessione: «Cretino tu? Ma no. Anzi, sei in gamba. Sono io il balordo».
© RIPRODUZIONE RISERVATA