Vorrei essere titolare, per un giorno solo, di quel passaporto che sulla copertina reca l’intestazione, pomposa quanto solenne, “United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland”. Il giorno in cui vorrei esserlo è domani, in quanto anch’io, insieme ai sudditi di Elisabetta II, avrei diritto a votare nel referendum sull’Europa.
Il mio desiderio non è spinto dalla velleità di “decidere”, neppure in proporzione infinitesimale, quale direzione il Regno debba prendere, ovvero se restare in Europa o staccare un cordone ombelicale che, data la natura stessa delle genti britanniche, non è mai stato troppo robusto: vorrei soltanto sperimentare l’emozione - il brivido, se volete - di trovarmi davanti a una scelta che va ben oltre quella espressa dalla scheda e che interroga invece la natura stessa del partecipante al voto.
Cercherò di spiegarmi. La domanda posta ai britannici - restare o andarsene -, per quanto rispettabilissima espressione democratica, fa leva sull’istinto. Più che basandosi su elementi concreti, coloro che si presenteranno al voto saranno chiamati a una scelta interiore, divisi tra umanissime tentazioni conservatrici (restare nel noto che, per quanto spesso sgradevole, è almeno in certa misura prevedibile) e altrettanto umani richiami verso l’ignoto (nebbioso ma promettente).
È una domanda quasi esistenziale, quella posta dal referendum, e la gente non potrà trovare la risposta negli slogan dei partiti. Chi spinge per l’uscita ha potuto elencare i tanti difetti della Ue, ma in tutta onestà mai potrebbe affermare di sapere con certezza che cosa accadrà dopo l’eventuale distacco; al contrario, chi preme per restare può con qualche ragione ventilare scenari foschi in caso di uscita, ma ha ben pochi argomenti per giustificare la necessità di scongiurare il cambiamento. Chi vota, dunque, dovrà farlo con l’incoscienza dell’istinto, il frizzo della speranza, la passione della rabbia. Un cocktail disastroso, senza dubbio, ma anche l’unico servito al Bar del Mondo.
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