Tutti sembrano amare molto il film d'animazione “Inside Out”. Buon per loro: io mi accontento del manifesto, quello con il profilo della testa e, in esso inscritti, i cinque personaggi che rappresentano altrettanti sentimenti. Ha risvegliato il mio in realtà mai sopito amore per le locandine cinematografiche.
Arrivo a dire che per certi versi ho sempre preferito i manifesti ai film. Ricordo certe passeggiate domenicali di quando ero piccolo: con mio padre passavamo davanti a un paio di sale che, con meno ritrosia di quanto accada oggi, esibivano poster coloratissimi. Dai disegni di pistoleri accigliati – che sempre protendevano la pistola a violare la terza dimensione -, di signorine terrorizzate (e discinte), astronavi in fiamme, mostri barcollanti e, soprattutto, dai fotogrammi scelti con sapienza commerciale (scene ricche di tensione: un duello, poliziotti chini sul cadavere, il “bandido” con il cappio al collo) ricavavo emozioni violentissime, soverchianti. Mi si schiudevano infinite scorribande nell'immaginazione, attraverso coincidenze umane tremende e inesplicabili. La visione del film le avrebbe certo risolte, ma non era precisamente quel che volevo: le semplice promessa del manifesto vibrava molto più forte, più desiderabile, perfino più piena, anche nella sua incompletezza.
Non passò molto perché mi rendessi conto di quanto erano volgari, quei manifesti. Ad alcuni capolavori di arte grafica (“Barry Lyndon”, “West Side Story”, “Lo squalo”, “Chinatown”, “2001”), si opponevano tonnellate di immagini scagliate sotto la cintola. Promettevano di soddisfare curiosità morbose o invitavano a trovare il coraggio di avventurarsi in territori spaventevoli: il tutto, ovviamente, a scopo di lucro. Mi sono sempre chiesto se però quei manifesti non contenessero, anche involontariamente, una lezione quasi universale, ovvero un energico sprone a vivere, scoprire, osare e perfino a godere. Dopo tutto, nascendo, il biglietto l'avevamo già staccato.
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