Il buono di domani

Avete presente tutto quell’apparato gastronomico, cucinifico, fornellistico, mangiatorio, infornante, sfornante, impastatico e lievitorio che, con gran passerelle di chef, aspiranti chef, studenti chef, casalinghe chef, chef mascherati e chef da diporto, vi assale ogni volta che accendete la televisione?

Ebbene, potrebbe essere qualche cosa in più del sistema adottato dai network per riempire in fretta i palinsesti, oppure di una moda destinata a passare o, ancora, di un trucco per produrre ore e ore di programmi senza pagare altro (o quasi) che il conto dal macellaio e dal fruttivendolo.

Il bombardamento mediatico sul cibo sta forse producendo dei frutti, il che, parlando di “roba da mangiare”, sembra perfino appropriato.

Sull’industria alimentare non sappiamo molto e l’idea generale è che, dopo tutto, qualche volta è meglio non sapere. Trattasi però di un settore affascinante, mosso da logiche che finiscono per sfuggire all’utente finale, ovvero il consumatore.

Sapevate, per esempio, che per anni e anni il sapore della verdura è stato considerato un fattore secondario nella produzione e nello sviluppo?

Nell’immediato dopoguerra e negli anni a seguire, trascinata dalle necessità della nascente grande distribuzione, la ricerca scientifica si è mossa per offrire agli agricoltori la possibilità di produrre ortaggi (e frutta) di dimensioni robuste, facili da inscatolare, resistenti al decadimento e adatti a essere raccolti “a macchina” piuttosto che “a braccio”. Il sapore buono? Beh, non che fosse un “difetto”, ma certo non era una priorità.

Oggi la tv gastronomica - ma non solo - ha rimesso in bocca al pubblico il gusto per il buono, se non per il genuino, per l’originale se non per l’esclusivo. Di conseguenza, la ricerca è costretta a spostare il tiro: nei laboratori di oggi si produce il buono di domani. Vigilate e preparate le papille.

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