Il calcio da dare

In tutto il mondo, solo (parte) del continente nordamericano non coglie la bellezza del gioco del calcio. Tutto il resto del globo ne va matto, anche se deve constatarne i difetti organizzativi, le disparità economiche e una certa arretratezza, per così dire, culturale.

Prendiamo il caso dell’Italia. L’organismo che presiede allo svolgimento dei campionati - la Federazione italiana giuoco calcio (Figc) fondata nel 1898 - esprime vedute che, in effetti, sarebbero considerate molto progressiste nella Louisiana del 1813, quando laggiù era legittimo acquistare un uomo e mantenerlo come schiavo. I più alti dirigenti della Figc, infatti, sono lieti di ammettere tra gli iscritti giocatori di qualunque razza, purché bianchi, non “lesbiche” e, se militanti in squadre provinciali, privi dell’assurda ambizione di giocare in serie A. Non obbligatorio, ma certamente apprezzato, il possesso di un certificato di appartenenza alla razza ariana.

Come è evidente, per logica e buon gusto è impossibile continuare a seguire con l’abbandono che la passione richiede un calcio del genere. Facile a dirsi, meno a farsi: il gioco resta, statisticamente ed esteticamente, il più bello del mondo e rinunciarvi, per tanti di noi, sarebbe come dire addio all’arte solo perché la proprietà del Louvre è finita in mano a un nazista.

La società civile calcisticamente sensibile dovrebbe dunque promuovere una rifondazione del calcio su basi illuminate se non proprio politicamente corrette. Come fare, visto che le squadre si battono ancora sotto la bandiera della Figc o, peggio, di quella federazione europea che assegna il premio fair play a i tifosi olandesi che, trascinati dall’entusiasmo per l’arte romana, ci hanno devastato la Capitale? Due soluzioni: a calcio giochiamo noi tutti, con il rischio, che non va negato, di sconquassi cardiocircolatori, o il calcio lo diamo a loro, ai dirigenti in cravatta di seta e mentalità da Medioevo, ma nelle terga. Ci vorrà tempo, ma andrà fatto: lo chiede (quasi) tutto il mondo.

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