«Una giovane donna del North Dakota che stava guardando una serie di foto su Facebook mentre era al volante, è stata incriminata per omicidio colposo dopo che la sua auto ha tamponato quella che la precedeva, costando la vita a una anziana di 89 anni».
La notizia di cui sopra, tratta dall’Ansa di sabato scorso, si presta a un’infinità di commenti, il più urgente dei quali, vorrei dire, chiederebbe di fare i conti con la nostra rabbiosa impellenza a consultare i social network sempre e ovunque. Quanti “mi piace” avrà raccolto la foto del gattino? La Teresa avrà visto gli auguri di buon compleanno che le ho messo sulla bacheca? E la citazione di Nietzsche - ispirata dal passaggio di Ciro Immobile dal Torino al Borussia Dortmund - avrà ottenuto l’impatto che merita?
C’è da ridere e piangere insieme al pensiero che una vita umana è andata perduta perché qualcuno non poteva aspettare due o tre secondi prima di accertarsi se la foto della spaghettata (o l’equivalente del North Dakota della spaghettata) fosse stata apprezzata, commentata, decorata di cuoricini, faccine sorridenti e ringraziamenti più o meno sgrammaticati. Ma quanto affetto hanno fatto mancare, soprattutto alle generazioni non native di Internet, i genitori e i nonni perché ogni minuto si debba correre alla virtuale e impalpabile rete di amicizie per aver conferma che sì, qualcuno ci ama, ci loda, ci sbaciucchia, ci fa le moine, ci coccola, riempiendo così - appena un poco, perché faccia meno male - il vuoto che sentiamo dentro e che ci fa incapaci di essere noi stessi?
Il giudice americano, intanto, ha posto un limite severo: il bisogno di ricorrere ogni momento a Facebook come a un “ciuccio” per adulti, non giustifica la negligenza grave. Il prossimo passo è accusare di omicidio colposo (di se stesso) chi - e sono (siamo) tanti - si attacca alla tettarella telematica per ogni minima esigenza emotiva. Anche se va a piedi. Anche se sta a letto.
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