Il delitto del secolo

Di delitti ne accadono purtroppo moltissimi. Alcuni diventano famosi al punto da ispirare romanzi, film e serie televisive. Questo, naturalmente, dopo aver occupato per mesi se non per anni gli spazi giornalistici. Altri delitti non hanno questa sorte: alcuni neppure vengono scoperti, altri non interessano al pubblico. Per quanto riguarda il nostro desiderio che per ogni delitto ci sia un colpevole consegnato alla giustizia, anche qui siamo in alto mare. Sforzi perché ciò accada se ne fanno, ma certezze non ne abbiamo.

L’uccisione del signor Philip Welsh, il febbraio scorso, nella sua casa di Silver Spring, Maryland, sembrava destinata a una sorta di limbo: non particolarmente clamorosa per essere ripresa da tutti i media del mondo, non abbastanza oscura per essere subito dimenticata. È però uscita dal grigiore della routine investigativa per un motivo inedito: la Polizia ha attribuito l’inconcludenza delle indagini al fatto che la vittima non aveva Internet.

A quando pare, nel mondo civilizzato, se qualcuno ci accoppa perché si arrivi prima o poi ad acciuffare l’assassino è necessario che noi, da vivi, si sia lasciata sufficiente testimonianza in Rete. In altre parole, gli investigatori contano sulla nostra attività online per raccogliere informazioni che potrebbero rivelare loro l’identità del colpevole. In mancanza di mail, pagine Facebook, account Twitter e foto in costume da bagno su Instagram i detective non sanno che pesci pigliare. «Ma che razza di persona era, questa? Neanche un selfie a pagarlo oro». Magari penseranno che non val la pena di indagare per scoprire chi ha cancellato la vita di un uomo del genere: in fondo, con questo suo rifiuto per Internet, si era già cancellato da sé dalla collettività. Ma il delitto Welsh è affascinante per più di un motivo: Philip era un poeta che batteva i suoi versi su una macchina per scrivere Smith Corona e rifiutava di apparire in Rete. Il suo assassinio mi sembra, letteralmente, il delitto del secolo.

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