Il dialogo

«Che dovevo fare, menargli?» ha chiesto con il consueto spirito rustico l’onorevole Antonio Di Pietro quando il video del suo colloquio con Silvio Berlusconi ha sollevato l’indignazione, trasmessa via Internet, dei suoi stessi elettori. «Non ci tradire» ha scritto uno; «così ti fai fregare» ha aggiunto un altro, mentre qualcuno lo ha dato per perso: «Confidavo in Di Pietro» piagnucolava un avvilito sostenitore, «ora constato con dispiacere che è amico di quel... che siede al governo».
Poco importa che Di Pietro abbia speso i migliori anni della sua vita (e anche un po’ della nostra) a scagliare improperi contro Berlusconi; poco importa che abbia fatto dei suoi congiuntivi micidiali shrapnel scagliati senza sosta nel tentativo di mutilare il Cavaliere; poco importa che, nell’emiciclo, si sia fatto salire la pensione al pari di una caffettiera Bialetti pur di vituperare l’uomo di Arcore: due parole a mezza bocca ed ecco che il tradimento è compiuto, l’accomodamento garantito e, con ogni probabilità, la ribalda metamorfosi portata a compimento.
«Che dovevo fare, menargli?» si è chiesto Di Pietro. Probabilmente sì, se voleva scongiurare l’ombra del sospetto. Perché il pericolo adombrato dai suoi (ex) sostenitori non è l’inciucio, ma qualcosa di molto peggio: la possibilità che il "nemico" diventi un avversario e che il "mostro" riveli l’identità troppo rassicurante di un uomo. Nel nostro circo democratico, invece, è bene che il nemico rimanga un orco con il quale, per carità, il dialogo è sempre auspicabile. Purché non gli si parli.

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