Il dubbio e i cani

Siccome pur di non scrivere dei fratelli radiomarelli o come diavolo si chiamavano e del loro amico al supermarket mi taglierei i polpastrelli, ritenendo mio preciso dovere non aggiungere altre fesserie al gran minchionificio in piena produzione sulle tragedie francesi, mi trovo nell’imbarazzante necessità di reperire un argomento alternativo. Cosa non facile, perché nessuno sembra essere interessato ad altro. Solo per me stesso, dunque, mi diletterò a commentare la notizia di una ricerca che, in tempi di pace, senza lo scoppiettare delle armi leggere e il fragore delle cavolate pesanti, non dubito che molti avrebbero trovato interessante.

La ricerca, condotta dal dipartimento di Psicologia della Ohio State University, era intesa a capire quanto ha ragione nel credere di conoscersi chi crede di conoscersi. Al di là dello scioglilingua, lo studio si proponeva di capire su quali basi le persone molto sicure di sé stesse, della propria identità, a loro agio, per così dire, nel proprio vestito umano, basassero questa loro convinzione.

Il risultato è che più una persona è sicura della propria identità meno ha idea della ragione per cui lo è. Nei 91 studenti presi sotto esame la disinvoltura, la confidenza e perfino quel tocco di sfacciataggine che - a volte - non guasta, risultavano inversamente proporzionali alla capacità di analizzare se stessi, di descrivere i propri sentimenti, di dare un nome ai mutevoli stati dell’animo e di scavare, operazione sempre affascinante, nelle scisti bituminose dell’anima.

Insomma, la fiducia in se stessi ha un prezzo: la scarsa, o nulla, inclinazione a guardare in se stessi. Potremmo addirittura definirla un anestetico della curiosità, un oppiaceo dell’introspezione. E pensare che l’interrogarsi, il lasciarsi conquistare da un’incertezza e l’accogliere un dubbio rappresentano atteggiamenti che, per quanto dolorosi, alla lunga finiscono per impedirci di far male a gente innocente e finire ammazzati come cani.

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