Il gambero Darwin

S’ode a destra un insulto razzista. Risponde a sinistra un rantolo d’infamia. Volete un riassunto del dibattito sull’immigrazione? I nipotini di Albert Dicey nonché di Vincenzo Gioberti e Carlo Cattaneo sostengono che il ministro dalla pelle nera è «un orango» e non si capisce come, in giro, non ci sia qualcuno disposto «a stuprarla». Posizioni forti, alle quali risponde con energia un degno erede di Proudhon, Turati e Gramsci: «Chi propone lo stupro del ministro venga messo a disposizione degli appetiti sessuali di venti negri».

Non vi sentire già rinvigoriti dallo spirare di questo robusto zefiro intellettuale? Non vibrate d’orgoglio nell’appartenere a un Paese che fa delle sue divisioni pretesti per confronti di altissimo livello? O forse vi viene la tentazione di prendere un bidone di benzina e di dargli fuoco a questo Paese che, giorno dopo giorno, non merita più la bellezza e l’intelligenza con cui, secoli addietro, venne costruito?

È un poco desolante – solo un poco – scoprire come, qualunque sia la cultura politica di riferimento, ai nostri occhi i “negri” siano rimasti poco meno che ominidi. In un caso bestiole da bacchettare e tenere in gabbia; nell’altro, sostenuto dal fronte progressista, nient’altro che bambinoni ipersessuati, soprammobili in stile etnico, spezie esotiche indispensabili a cucinare un piatto mondano con cui stupire gli amici.

Non siamo neppure degni del paternalismo ottuso che partorì il concetto del “buon selvaggio”: il “negro” è solo un fantasma stereotipato utile per lanciarci reciproci insulti. Mi chiedo cosa sia successo all’evoluzione, in Italia, perché il suo percorso si sia così bruscamente interrotto. Provate a paragonare un orango che vive libero nel suo ambiente a un tale in canotta, la barba sfatta, le braccia smorte dove campeggia la croce celtica o il Che Guevara, seduto dietro una panza prominente mentre digita su Facebook sgrammaticati deliri, e ditemi senza esitare a chi dei due affidereste la riforma della Costituzione.

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