Anche nell’indignarsi ci vorrebbe il senso della misura. Scrivo questo perché, come temevo, l’ondata di - sacrosanta - esecrazione nei confronti di Walter Palmer, il dentista del Minnesota che per soddisfare la sua volgare e codarda voglia di caccia grossa ha assassinato, nello Zimbabwe, un magnifico esemplare di leone, sta tracimando oltre i limiti del grottesco. Dopo gli insulti online, ora anche il suo studio e la sua abitazione sono assediati da animalisti inferociti per il povero Cecil, il leone vittima di tanta dentistica stupidità.
Personalmente, credo che Palmer meriti tutte le palate di vergogna che l’opinione pubblica sta scaraventandogli addosso e non mi vergogno a riconoscere di aver partecipato alla campagna di spernacchiamento. L’obiettivo, però, non può essere una vendetta meschina e inutile, quanto il mettere in chiaro a tutti che certi “hobby” sanguinari oggigiorno non sono più tollerati. Invece, nella ripetizione ossessiva dell’insulto, nel crescendo rossiniano delle minacce e nella gara a superarsi in riprovazione si intuisce, temo, il desiderio infantile di sfogarsi contro un bersaglio facile.
Dico questo perché ho sincero disgusto per i linciaggi, non importa se virtuali o spinti da una buona causa. Esito, invece, a sottoscrivere quell’osservazione, peraltro impeccabile in punto di logica, che sottolinea come sia sbagliato piangere per un leone ucciso e dimenticarsi degli uomini che, ogni giorno, subiscono la stessa sorte o sono costretti a vivere nella miseria e nella paura. È vero che alla comune indignazione per la morte di un leone corrisponde un altrettanto diffuso distacco per la sorte di tanti esseri umani poveri, malati e sfruttati, ma lo squilibrio, secondo me, non è dovuto tanto a ipocrita leggerezza quanto a un profondo equivoco intellettuale sul valore della vita. Laddove un leone è soltanto una magnifica creatura, un uomo per tanti di noi è ancora un possibile nemico, un potenziale ladro, un subdolo conquistatore. E su di lui, peggio dell’odio, scende il gelo del cuore.
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