A volte le scoperte più interessanti sono le più semplici. Prendiamo il caso della scoperta che, da qualche giorno, han fatto i giornali nazionali. È bastato loro rivolgere la stessa serie di domande ai candidati a sindaco di Roma e mettere fianco a fianco i programmi di Stefano Parisi e Beppe Sala, alfieri rispettivamente del centrodestra e del centrosinistra nella corsa amministrativa di Milano. Risultato (stupefacente?): dicono tutti le stesse cose.
Le ragioni sono più d’una, credo: ci sono necessità che le città hanno e alle quali non si può rispondere che in un modo. Ci sono altre scelte che, in sostanza, sono imposte dalla legge. Ci sono infine cose che i candidati devono dire se vogliono essere eletti: esse infatti rispondono alla “pancia” dell’elettorato. Azzardare qualcosa di diverso,di più ragionato, articolato e alternativo potrebbe essere un rischio: meglio seguire la corrente dell’ovvio o, se preferite, del populismo. È la democrazia rappresentativa, bellezza, e fino a quando qualcuno inventerà un sistema migliore (improbabile che accada) ce la teniamo stretta.
Tutto ciò impone una domanda: ma se i candidati dicono di voler fare le stesse cose, su che cosa litigano, quando litigano?
A me sembra che litighino perché noi tutti ci aspettiamo che lo facciano. Litigano per distinguersi l’uno dall’altro e, soprattutto, litigano perché noi, votando per il candidato A, abbiamo l’impressione istantanea - e gratificante - di votare “contro” il candidato B.
È capitato a tutti - sottoscritto in prima fila - di tornare dal seggio soddisfatti perché il calare la scheda nell’urna era stato goduto come gesto distruttivo nei confronti di qualcuno piuttosto che come atto di sostegno nei confronti di qualcun altro. E allora sotto con i litigi, perché noi si abbia l’impressione di avere un nemico da ostacolare. Qualunque pretesto è buono: il passato, il presente, la faccia, la giacca, la cravatta. Tutto serve per fare rumore e nascondere l’impressionante silenzio delle idee.
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