Chi trova il tempo, una volta al giorno o almeno una volta alla settimana, di alzare lo sguardo dai soliti impicci per controllare lo stato generale del mondo, avrà la sensazione che le cose non procedano esattamente per il meglio.
Vediamo maree di petrolio sfuggite a tubi sottomarini imbrattare coste incontaminate, folle inneggiare a questa o quella rivoluzione, innalzare o abbattere questo o quel dittatore, magari usando la religione come corpo contundente.
Questa analisi sempre un poco affrettata, intesa ad accertarsi se i mali del globo siano ancora presenti o se, per magia, abbiano avuto modo di scomparire, alimenta in noi una certa sfiducia nel futuro. Il vecchio mondo, è la conclusione morale dell’indagine, non si risolve mai nella sua imperfezione di fondo e ancora sconta il peccato originale insito nella sua natura mortale e transitoria.
Tutto vero se non che, dietro la cortina della prima impressione, giace un’altra possibile verità: il mondo non è perfetto e non lo sarà mai, ma ciò non gli impedisce di migliorare. C’è per esempio una questione che, da quanto la crisi ha occupato cuori, menti e coordinate bancarie, induce molti, troppi, allo sconforto: quella del lavoro. Eppure c’è qualcuno che guarda a questo collasso delle certezze, al disintegrarsi del posto fisso, al trionfo del precariato e al costante declino dell’impegno umano nell’industria, come a una trasformazione e non a un’implosione, a una mutazione benefica e non a una tragedia. Morto il comunismo, in dirittura di arrivo il liberismo, può darsi che, nostro malgrado, si apra un’era in cui il lavoro sarà al nostro servizio e non noi servizio del lavoro.
Un’analisi che ho letto recentemente stabilisce come il lavoro finirà per dipendere sempre di più «dall’immaginazione piuttosto che dalla forza, dall’istruzione piuttosto che dalla fatica». È così vaga questa possibilità, da sembrare un miraggio: eppure, fosse vera, l’uomo potrebbe finalmente dire di essere venuto al mondo per fare del suo meglio.
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