«Si è aggiudicato una ricompensa di 15 mila dollari l’hacker “buono” che nei giorni scorsi ha messo al corrente Facebook di una seria falla informatica che consentiva di forzare tutti gli account del social network».
La notizia di cui sopra, diffusa un paio di giorni fa dall’Agenzia Ansa, ha per me interesse non perché mi appassionino le falle, informatiche o altro (a meno che non mi trovi su un’imbarcazione), né perché abbia ceduto al fascino dei cosiddetti “incursori” della Rete o tantomeno perché mi stiano a cuore le sorti di Facebook (servizio al quale, me ne rendo conto, faccio accenno più spesso di quanto vorrei). L’interesse sta tutto nell’uso dell’aggettivo “buono” accostato, nella circostanza, al sostantivo “hacker”.
Qualcuno - segnatamente l’anonimo redattore dell’Ansa - deve aver pensato, almeno a livello inconscio, che l’accostamento fosse sorprendente abbastanza da tenere in piedi la notizia. Quando mai, infatti, si è sentito parlare di un hacker “buono”? Nell’immaginario dei più, l’hacker è un lupo della Rete che si aggira per i recinti virtuali fino a quando trova un buco largo abbastanza da lasciarlo passare. E che cosa fa un lupo quando oltrepassa una recinzione? Lascia caramelle omaggio? Si intrattiene con il gregge giocando a scala quaranta? Niente affatto: il lupo attacca, sbrana, ruba e, spregio supremo, non rilascia la fattura né emette lo scontrino.
Hacker “buono” equivale dunque a lupo “buono”, mentre il lupo, da che favola e favola, è cattivo. Per interpretare correttamente la definizione di cui sopra, tuttavia, non dobbiamo limitarci a considerare la reputazione negativa degli hacker. Piuttosto, dovremmo interrogarci sul fatto che chiunque si trovi nella posizione di poter approfittare, arraffare e infine sbranare, e si comporti invece in modo onesto, risalta come un’anomalia sbalorditiva: un lupo buono, un mostro bello, un assassino pietoso, un consigliere regionale refrattario alle note spese.
© RIPRODUZIONE RISERVATA