Il mistero del tè

Non si può trascorrere del tempo in Oriente senza accostarsi al mistero del tè. Caffè, cappuccini, espresso doppi e latti macchiati sono bevande più che nobili ma, da queste parti, ancora trionfa l'enigma del tè, in tutte le sue sfumature brune e dorate.

Insisto con termini quali "mistero" ed "enigma" per il fatto che, pur essendo un estimatore del tè, per me questa bevanda ha ancora il fascino impenetrabile di una lingua orientale, con le sue scivolate di tono, le frenate impreviste, le sottigliezze labiali e certe squillanti sonorità improvvise. Il buon vecchio tè all'inglese, pur nelle sue innumerevoli miscele, è una bazzecola rispetto alle infinite ramificazioni orientali, con preziosi "blend" che affluiscono da Cina, Taiwan, India, Giappone, Sri Lanka e Singapore.

Dunque, entrare in una fornita sala da tè orientale è come superare la soglia di un romanzo, di un'avventura esotica tanto più affascinante quanto spesso poco decifrabile. Per me, l'avventura incomincia ancora prima che prenda la scena il concerto sonoro e visivo delle fini porcellane, dei cucchiaini d’argento, dei liquidi dorati e delle bianche tovaglie di lino: il viaggio, sempre imprevedibile, si apre con la lettura del menu, ricco di suggestioni oscure e nello stesso tempo fortemente evocative.

Leggo: "Sencha superior", "Green of Fujian", "Imperial lapsang souchong", "Jade Dragon", "Ti kuam supreme", "Golden gem", "Pun-erh prestige", "Syokuro samurai", "Singapore breakfast", "Oriental empire", "Infinite Vietnam", "Royal orchid". Nomi che accarezzano la mente e spingono la fantasia verso padiglioni dorati, antiche corti, cerimonie in palazzi di giada. E tutto questo ancor prima di aver assaggiato una goccia di tè e, anzi, avendone quasi timore: come non chiedersi, a questo punto, che cosa potrebbe succedere se avessimo l'imprudenza di versare due cucchiaini di zucchero nelle fauci spalancate dello Jade Dragon?

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