Il museo della politica

Potete sentire, nell’aria, la solitudine di Corradino Mineo? La sua parabola è una delle storie più malinconiche delle ultime settimane. Con invidiabile fermezza ha opposto, nonostante la vocina esile e l’aspetto non precisamente marziale, ogni possibile resistenza a qualunque cambiamento: al Senato, al suo partito (il Pd) e, in fondo, alla politica tutta. C’è mancato soltanto un “lei non sa chi sono io” e tutto l’armamentario conservatore e tradizionalista - ma più propriamente di abitudine al privilegio - sarebbe stato dal nostro spolverato e rimesso in campo. Alla fine ha sbroccato e tirato in ballo, nel prendersela con Renzi, nientemeno che i bambini autistici. Una grave scivolata, ma dovete capire che per uno abituato prima allo stipendio della Rai e poi a quello del Senato, l’incombente evenienza di dover lavorare per vivere è certamente inquietante.

In realtà, non c’è bisogno di arrivare a tanto: Mineo - che nel frattempo è l’ultimo rimasto dei senatori autosospesi del Pd - potrebbe benissimo trovare un impiego di prestigio nel settore pubblico: lo si potrebbe nominare all’istante Conservatore del Museo della Vecchia Politica. Non dovrebbe essere difficile individuare, nel patrimonio immobiliare dello Stato, un edificio polveroso abbastanza da poter ospitare, sotto la giusta patina di vecchiume, una copia rilegata del Manuale Cencelli, i piani di lottizzazione dei telegiornali, i registri del consociativismo e, sotto formaldeide, i più mostruosi tentativi di inciucio e spartizione. Una raccolta non dissimile da quelle che, in varie parti del mondo, propongono al pubblico, in ambienti opportunamente tenebrosi, antichi strumenti di tortura, mazze ferrate, balestre, spingarde, picche e pugnali. Non si creda che, per Mineo, sia questo un incarico puramente conservativo e periferico, una sorta di deposito a fine carriera. Da Conservatore coscienzioso egli vorrà tenere tutto l’armamentario in perfetta efficienza: prima o poi, tornerà utile.

© RIPRODUZIONE RISERVATA