Come sempre non appena accade qualcosa che scuote (o dovrebbe scuotere) le coscienze di tutti e farci partecipare, uniti nel segno della razza umana, a un dolore collettivo, qualcuno si preoccupa di misurare l’intensità di tale partecipazione, ovvero la grandezza del summenzionato dolore e, quando ritiene insufficiente il risultato, è pronto a rinfacciarci la nostra insensibilità.
È questo un esercizio polemico che ha i suoi limiti (in base a quali criteri si otterrebbe una stima accurata della partecipazione generale al dolore?) ma anche qualche merito: trattasi di un invito - che certi troveranno pressante, altri superfluo, ma qualcuno utile - a mettere in luce la nostra ipocrisia.
L’invito di queste ore è chiaro: perché in milioni siamo scesi in piazza per Parigi e in pochini per Orlando? Perché tanto lutto per i morti all’aeroporto in Belgio e così poco (almeno all’apparenza) per le vittime del club gay in Florida? Che sotto sotto l’omofobia si riveli in tutta la sua intolleranza? Che finisca per imporsi in noi una forma silente di un certo pensiero scellerato, espresso a voce, per fortuna, solo da pochi dementi: «In fondo se la sono cercata»?
Corro il rischio di sbagliarmi di grosso, e me ne rendo conto, ma azzarderei l’ipotesi che a imporsi non sia stata l’omofobia, ovvero l’odio e il disprezzo, ma qualcosa di più subdolo: l’indifferenza. L’assassino di Orlando non ci ha fatto sentire in pericolo come quelli di Parigi o Bruxelles perché noi (che vorrebbe dire: tanti di noi, la maggioranza di noi) non frequentiamo club gay e quindi non avvertiamo sulla pelle, in modo empatico, il rischio che possa toccarci una sorte simile. La stessa maggioranza , probabilmente, non odia i gay e non li giudica male, ma neppure si spinge a considerarli parte della stessa umanità, la “sua” umanità. Quando invece l’interesse nel prossimo tutto è l’unico atteggiamento che può salvarci dalla follia.
© RIPRODUZIONE RISERVATA